Brevi note metodologiche ed empiriche per una riforma del diritto del lavoro

Scritto il 4/04/2012, 09:04.

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In questi giorni, il Paese discute di una riforma organica del diritto del lavoro, dando per certo, da un lato, l’inefficacia delle norme vigenti, e, dall’altro, la necessità, per lo sviluppo del sistema, di modifiche sostanziali. All’una e all’altra considerazione, forse, però, si è giunti sull’onda emotiva della crisi economica che, complice anche l’urgenza, non è mai un buon presupposto per le riorganizzazioni.

Certo, l’impianto complessivo del diritto del lavoro necessita di una razionalizzazione, se non altro per sfrondare l’ordinamento di norme inutili e ridondanti che creano incertezza nell’applicazione e impongono costi da burocrazia difficilmente giustificabili in un sistema-paese sviluppato.

Ma è altrettanto vero che non si può correre il rischio di gettar via il bambino con l’acqua sporca: l’Italia ha già un ordinamento del lavoro e il suo assetto fondamentale funziona. Non tutto è da rifare, insomma.

Ne è riprova, se non altro, una notizia, battuta frettolosamente dal sito internet del Sole 24Ore, secondo la quale la Cassazione (sentenza n. 4476/2012) ha riconosciuto la natura subordinata del rapporto di lavoro ad una telefonista, inquadrata formalmente, come fin troppo spesso avviene, in una collaborazione coordinata e continuativa (leggi l’articolo del Sole24Ore).

Ad affrontare la questione in termini strettamente tecnico-giuridici si tratta di una non notizia: il rapporto di subordinazione può emergere anche – e a prescindere dalla formalità contrattuale – da una serie di indici sintomatici, quali la subordinazione gerarchica, la dipendenza funzionale, l’obbligo di orario, ecc..

Eppure, a lungo, la giurisprudenza è rimasta sospesa nel limbo creato, per ragioni meramente economiche, dalle telefoniche: contratti di collaborazione dove la “disponibilità” mascherava quello che tecnicamente è “orario di lavoro”; “coordinamento” che, in realtà, voleva dire “subordinazione”.

E il discorso diventerebbe ancor più ampio se si parlasse di ferie, di straordinari e di TFR.

Negli stessi giorni, però, i media riportano la notizia secondo cui una nota ditta di abbigliamento per giovani avrebbe introdotto, tra le sanzioni disciplinari, un qualcosa di vagamente pseudo-pedagogico: in luogo dei provvedimenti disciplinari previsti dallo statuto dei lavoratori, i dipendenti verrebbero invitati – stante alla fonte – a fare 10 “flessioni”. Sì, proprio quelle che ci ricordano le palestre o, peggio, il servizio di leva… Anche in questo caso, gli strumenti giuridici esistono: c’è una palese violazione non solo dell’art. 7 della L. 20 maggio 1970, n. 300, ma – ancora più grave – degli artt. 2 e 3 della Carta Costituizionale.

Eppure, il caso non è mai arrivato in tribunale: troppa la paura dei lavoratori interessati, inquadrati in un contratto a chiamata, di perdere il posto di lavoro in un momento economico così critico.

L’uno e l’altro caso, a dispetto dei finali differenti, hanno dei punti di contatto che vale, sia pur sinteticamente, analizzare: l’equilibrio complessivo tra le parti dei rapporti di lavoro, evidentemente già fragile, risente delle contingenze e delle esigenze economiche; l’interesse dei singoli lavoratori non è adeguatamente sintetizzato in un più generale interesse collettivo tutelato dai sindacati; le garanzie per i lavoratori dipendenti – astrattamente – esistono, e sono demandate alla tutela giurisdizionale dei diritti, la cui attivazione, però, risulta spesso concretamente a rischio. E non solo per paura di perdere il posto di lavoro.

La recente riquantificazione del contributo unificato e il progressivo indebolimento della figura dell’avvocato contribuiscono a squilibrare il sistema di tutela dei diritti.

Nell’affrontare una riforma organica del diritto del lavoro non si può non tener conto di tali considerazioni, a meno che il dibattito non sia da ricondurre alla più generale questione tipica del liberalismo (che non ha alcun punto di contatto con ciò che, con brutta espressione di più brutta cosa, si suole definire anarco-capitalismo) sulla predominanza delle libertà economiche, rispetto a quelle socio-politiche o viceversa.

Il rischio di una riforma “al ribasso” (non solo del lavoro), in ultima analisi, è un complessivo indebolimento, più o meno consapevole, delle une e delle altre, le cui ripercussioni finirebbero, tra l’altro, per pesare sul sistema produttivo complessivo.

Siamo sicuri che gli italiani lo meritino?

Avv. Paolo de Nardo

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