Incentivi alle imprese? Non bastano più

Scritto il 3/03/2012, 09:03.

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Stando ai dati forniti dal Ministero dello Sviluppo Economico nella “Relazione sugli interventi a sostegno delle attività economiche e produttive” relative al periodo 2003-2008, l’intero sistema delle imprese italiane, nel solo 2008, avrebbe beneficiato di circa 10 miliardi di euro di agevolazioni (e finanziamenti), attraverso 91 interventi nazionali e 1216 locali.

Nello stesso anno, sarebbero stati oltre 6 i miliardi di euro ottenuti direttamente dallo Stato e 1,85 dalle Regioni (entrambi al netto delle agevolazioni) a fronte di circa 133.500 domande presentate.

Confrontando tali dati con quelli forniti dal Servizio Studi Dipartimentale della Ragioneria Generale dello Stato, che ha analizzato i capitoli di spesa e i piani gestionali dello Stato rientranti nella sola categoria degli incentivi diretti alle imprese (al netto, quindi, dei semplici trasferimenti), si nota che i dati coincidono e che addirittura si mantengono abbastanza costanti negli anni.

A questo punto dobbiamo chiederci se queste somme bastano da sole a sostenere le imprese.

Di certo, se si volesse rispondere guardando solo al numero di imprese fallite in Italia negli stessi anni, la risposta è negativa. Secondo le analisi effettuate dall’Osservatorio Crisi d’Impresa di Cerved Group sugli stessi anni, sarebbero state oltre 7000 le imprese fallite nel 2008, 9000 nel 2009 e addirittura 11000 nel 2010.

Si tratta di valori altissimi tanto più se si considera che con la riforma della disciplina sulla crisi d’impresa, operata tra il 2006 e il 2007, da questi numeri sono anche escluse le piccole imprese.

Come al solito, però, il problema non può essere affrontato solo con i numeri. Infatti, operare un parallelismo tra incentivi da un lato e fallimenti dall’altro, rischierebbe di essere fuorviante.

Intanto perché non sempre chi ha preso contributi è poi lo stesso che ha dichiarato fallimento.

Poi perché le origini delle crisi d’azienda sono complesse e generate da fattori tanto interni (inefficienza, rigidità, decadimento dei prodotti, errori strategici, inerzie organizzative, ecc.) quanto esterni (cambiamento dei prezzi, della disponibilità dei fattori produttivi, degli atteggiamenti dei consumatori, dell’andamento della domanda, dell’ambiente politico, sociale, tecnologico, ecc.).

Quindi, qualora si potessero confrontare con esattezza le aziende destinatarie di contributi pubblici con quelle fallite, si rischierebbe di non rispondere alla domanda se gli incentivi bastano a sostenere le imprese (e d’altronde, quando il problema di un’azienda non è solo di tipo economico, difficilmente un incentivo può bastare a risolverlo).

Per tentare una risposta occorre guardare anche all’aspetto psicologico del problema, ossia a come sono stati finora visti, interpretati e gestiti gli incentivi alle imprese.

La verità è sotto gli occhi di tutti ma difficile da ammettere: ammetterla significa riconoscerla e riconoscerla significa assumersi responsabilità e, di conseguenza, oneri.

Il Nostro è un Paese piccolo ma nonostante ciò presenta da un lato infinite diversità storiche, geografiche, culturali e sociali e, dall’altro, un retaggio di mentalità che stenta a morire e che ne sta causando anche il suo stesso lento declino.

In Italia, un forte individualismo e uno scarso senso di appartenenza allo Stato e alle sue Istituzioni hanno fatto sì che tanto al Nord quanto al Sud la gente imparasse ad arrangiarsi da sola, spesso anche, soprattutto al Sud, facendo a meno dello Stato stesso. Il Nord ha tirato avanti con le industrie e comunque con un’economia di tipo imprenditoriale, il Sud con l’assistenzialismo.

Da qui un’economia stagnante al Sud e un motore economico quasi avulso dal sistema al Nord e quando c’era un problema, per non volerlo (e spesso neanche poterlo) risolvere, lo si affrontava senza in realtà farlo, per esempio immettendo fiumi di denaro in un’economia che aveva anche altre carenze (un po’ come continuare a versare acqua in un recipiente bucato senza volerne e/o poterne cercare le falle), oppure approvando leggi dettate dall’impulso e/o dalle esigenze contingenti ma senza fare riforme serie, organiche, coordinate e strutturali, perché magari sconvenienti nell’immediato (andando sempre avanti quindi per logiche di breve e mai di medio-lungo periodo, tamponando ma mai risolvendo).

Così facendo, qualunque problema veniva sempre affrontato elargendo somme di denaro che non avevano l’effetto di stimolare la competitività, la ricerca (anche di nuove strategie) e l’adeguamento strutturale delle aziende ai tempi che intanto cambiavano (e pure velocemente). Quando, però, indistintamente e a tutti i livelli, si pensa solo alla ricerca di un proprio utile immediato, senza badare all’interesse generale, a rimetterci è il Paese intero.

Alla fine le risorse scarseggiano e qualcuno bussa alla porta e non conta che quel qualcuno sia un’Unione europea che pretende il risanamento dei conti pubblici o un cittadino che chiede anche lui giustamente di dover campare, perché intanto qualcuno sta bussando e qualcun altro dovrà rispondere.

Rispondere, pertanto, dovrebbe consistere nel rinunciare un po’ ai propri interessi particolari a fronte di quelli collettivi, evitando di elargire finanziamenti e incentivi (che servono solo nell’immediato), diminuendo la pressione fiscale (con ciò dando fiducia ai cittadini), inasprendo fortemente le sanzioni per chi evade. Bisognerebbe intraprendere il cammino delle riforme strutturali, combattendo anche ritardi culturali e difese corporative. Non è accettabile che il peso di mancate riforme gravi sulle generazioni future per l’incapacità (o la non volontà) di cambiare un modello di sviluppo e d’intervento pubblico nell’economia non più sostenibile né equo.

Ivan Centomani

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