Una soluzione alla crisi? Guardiamo le cause

Scritto il 10/05/2012, 10:05.

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Per individuare le cause dell’attuale crisi economica, partiamo da due determinanti per i successivi sviluppi: la deregolamentazione del mercato dei derivati finanziari, operata nel 1998 da Lawrence Summers, e i robusti tagli ai tassi di interesse della Federal Reserve dopo l’11 settembre 2001.

Dopo questi provvedimenti, nel quinquennio 2001-2005, negli Stati Uniti si è assistito a un enorme allargamento del credito, usato dagli operatori finanziari nei modi più diversi e la crisi dei mutui subprime ha avuto origine proprio da questa forte espansione della liquidità.

I tassi di interesse molto bassi (tra l’1% e l’1,25%) di quel periodo, infatti, favorirono gli investimenti immobiliari e crearono una bolla speculativa che alimentò direttamente il mercato dei titoli derivati finché il successivo riallineamento dei tassi, che nell’arco di un anno salirono al 4%, provocò la crisi dei pagamenti dei mutui immobiliari stipulati a tasso variabile.

Nel 2006, l’esplosione della bolla immobiliare diventò un problema che si riverberò sui titoli derivati nei quali, nel frattempo, erano confluite (e si erano monetizzate) le aspettative dei ricavi previste sulla base dell’andamento dei mercati degli anni precedenti.

Il collasso del sistema finanziario, la bancarotta della Lehman Brothers, la sofferenza delle grandi banche d’affari americane avviarono il contagio della crisi a tutti i mercati internazionali, e l’Europa ne rimase colpita senza avere gli strumenti per bloccarla.

La stessa BCE non ha potuto (e non può) placare il calo delle borse e l’ondata speculativa sui titoli del debito pubblico dell’eurozona avendo solo il compito di perseguire una politica di stabilità monetaria.

In pochi anni Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna e Italia sono entrati nel mirino della speculazione internazionale, tutti gli altri Paesi europei hanno risentito dei contraccolpi delle economie sotto attacco e la BCE, in cambio di aiuti economici, ha chiesto severe misure per il rientro del debito pubblico (forti tagli alla spesa pubblica e nel pesante utilizzo della leva fiscale).

Come se non bastasse: la macchinosità delle procedure di intervento aggrava la situazione di sofferenza dei Paesi sotto attacco speculativo, l’European Financial Stability Facility ha scarsa rapidità d’azione e la BCE è combattuta tra l’obiettivo di contenere l’inflazione e l’utilizzo di idonee manovre monetarie.

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Come mai tutto ciò?

Perché nell’UE non esiste un coordinamento tra moneta, titoli del debito pubblico e sistema fiscale, cosa che genera continui scontri d’interessi tra gli Stati e ritardi decisionali che ostacolano tempestive operazioni di contrasto alle ondate speculative.

Una banca centrale d’altronde dovrebbe avere il potere di controllare la propria esposizione debitoria, determinare il gettito fiscale che le è necessario e, di conseguenza, attuare le giuste misure monetarie, mentre per la BCE riuscire a compiere velocemente queste operazioni è praticamente impossibile.

C’è, poi, un altro problema economico, il cosiddetto “trilemma dell’impossibilità”, ossia l’impossibilità di avere insieme un regime di tassi di cambio fissi, libertà di movimento di capitali e autonomia politica monetaria interna.

I Paesi dell’eurozona hanno adottato, infatti, un regime di tassi di cambio fissi, ma la Gran Bretagna, la Svezia e la Danimarca, pur essendo parte dell’Unione Europea, hanno tenuto la loro moneta nazionale con regime variabile, partecipano alla libertà di circolazione di capitali e hanno una loro politica monetaria interna.

Tutto ciò espone i Paesi aderenti all’eurozona a pericoli di emorragia di capitali che trovano più conveniente spostarsi, ad esempio, verso la Gran Bretagna in virtù della libera circolazione e di condizioni più favorevoli.

Aver rimandato provvedimenti che ne riducessero la vulnerabilità ha reso l’Europa uno dei più appetibili bersagli della speculazione internazionale.

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Cosa s’intende per speculazione?

Quando un Paese è in fase recessiva si genera l’attacco sui titoli del debito pubblico. Un attacco speculativo su un debito pubblico avviene quando, con una robusta vendita di opzioni, swap o altri titoli derivati contrattati sui titoli del debito stesso, si avviano delle scommesse sull’andamento dei tassi d’interesse. Ovviamente, questo tipo di movimenti finanziari finisce per influire anche sull’andamento dei tassi, e la vittima dell’attacco speculativo si ritrova a pagare cifre sempre più alte per approvvigionarsi di risorse finanziarie.

A questo problema, la banche centrali hanno sempre risposto (fin dall’ottocento) con un procedimento molto semplice, consistente nel finanziarsi da sole battendo nuova moneta, in tal modo acquistando gli stessi titoli oggetto di speculazione e creando un’inflazione che a sua volta disincentiva eventuali nuove speculazioni.

In Europa, però, ci sono delle ostilità verso l’utilizzo delle immissioni di liquidità (auspicate dagli economisti come il premio nobel per l’economia Krugman e dai capi di stato greci e spagnoli), perché i tedeschi hanno una bilancia dei pagamenti in fortissimo attivo.

La Germania, infatti, vanta con l’Europa e il resto del mondo crediti per un ammontare complessivo superiore ai 1500 miliardi di euro, che verrebbero fortemente intaccati da robuste manovre monetarie (che, peraltro, avrebbero anche l’effetto di disinnescare tentativi di lucro sui debiti sovrani).

La crisi è frutto di questo disequilibrio economico; e mentre cittadini, imprese e famiglie pagano con gli aumenti di tassazione il conto agli speculatori, la situazione economica del Paese non migliora e anzi contribuisce solo a sottrarre risorse e a creare ulteriori emorragie di capitale dove le banche non possono prestare il denaro che gli arriva dalla BCE e i cittadini sottraggono alla loro spesa quote di tassazione sempre più alte.

Non è detto neanche però che un pareggio di bilancio immunizzi da attacchi speculativi. Francia e Austria, ad esempio, pur essendo state sempre virtuose, hanno avuto problemi, Irlanda e Spagna hanno visto passare i loro bilanci dal segno positivo a quello negativo dopo gli attacchi speculativi del 2008 e così via.

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Sono sufficienti il taglio della spesa pubblica e l’aumento delle entrate fiscali a risanare il bilancio e rilanciare l’economia?

Nel triennio 2010-2012, nonostante le difficoltà, Stati Uniti, Giappone e Cina hanno ripreso a crescere, e per gli USA i dati del Fondo Monetario Internazionale hanno stimato una crescita globale del PIL pari a 1.100 miliardi di dollari.

Il motivo? Gli Usa hanno accettato il principio dell’intervento dello Stato nell’economia e con un abbassamento dei tassi della FED, una robusta immissione di liquidità nel sistema bancario, un innalzamento del tetto del debito pubblico e adeguati programmi sociali hanno evitato il tracollo e posto le basi per una forte ripresa.

Opposto è, invece, l’atteggiamento europeo (verso cui, infatti, gli Stati Uniti sono molto critici, perché un eventuale crack europeo potrebbe generare anche negli USA nel giro di poco tempo un cosiddetto “double down economico”, ossia una nuova recessione).

Le politiche d’austerità orchestrate dalla BCE e imposte ai governi europei in difficoltà (in cambio di liquidità) stanno provocando delle recessioni che rendono ciclicamente i Paesi vulnerabili agli attacchi speculativi sui titoli del debito pubblico.

Basta, infatti, un innalzamento di pochi punti percentuali dei tassi sul debito pubblico che la liquidità ottenuta con fatica, al prezzo di un pesante utilizzo della leva fiscale e del taglio della spesa pubblica si dissolve rapidamente, con l’ulteriore effetto che le agenzie di rating rivedono le proprie stime e declassificano i titoli di Stato di quegli stessi Paesi provocando ulteriori emergenze di ricapitalizzazione delle banche che, a quel punto, trattengono il danaro (che invece dovrebbero destinare agli investimenti) e innescano il fenomeno del credit crunch, ossia della stretta creditizia, con evidenti forti ripercussioni su imprese e famiglie.

È quello che è avvenuto in Grecia, in cui i tagli al bilancio statale e l’aumento della tassazione hanno spinto il Paese verso la recessione e contemporaneamente l’erosione della capacità di spesa delle famiglie e la restrizione del credito alle imprese hanno bloccato sia i consumi che gli investimenti.

Per questo motivo, la politica della BCE, orientata al contenimento dell’inflazione e alle politiche di pareggio di bilancio, sta ottenendo effetti opposti a quelli auspicati e molti economisti americani, come il premio nobel per l’economia Paul Krugman, non fanno altro che ripeterlo.

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È veramente indispensabile questa guerra contro il debito pubblico?

Sarebbe meglio non essere molto indebitati, fosse solo per non ricorrere a un’eccessiva pressione fiscale, ma il debito pubblico ha sempre costituito per l’Italia anche una forte leva di sviluppo economico. Infatti, l’Iri, le partecipazioni statali, gli aiuti economici del Mezzogiorno e così via sono stati alla base della ricostruzione degli anni ’50 e del successivo boom economico degli anni ‘60. L’applicazione delle politiche keynesiane hanno rappresentato la base del benessere diffuso (sebbene ad un certo punto si sia esagerato).

Nella stessa ottica hanno sempre agito anche USA e Giappone, la cui esposizione debitoria ha raggiunto oggi cifre stratosferiche. Quella del Giappone rappresenta addirittura una caso di scuola, ammontando al 210% del Pil (e il Giappone è la terza potenza economica mondiale dopo USA e Cina), mentre la nostra non ha mai superato il 120%.

La realtà è che l’indebitamento pubblico può aiutare a uscire dalla crisi ma andrebbe coordinato con il controllo della moneta e la gestione delle entrate fiscali, mentre in Europa (e l’Italia non fa eccezione) mancano le strutture finanziarie per governare in armonia moneta, indebitamento e fiscalità. Per evitare asimmetrie occorrerebbero, a fianco alla moneta unica, gli euro bond e un sistema fiscale integrato tra tutti i Paesi dell’eurozona.

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Perché non possiamo continuare come abbiamo fatto in passato?

Negli anni Ottanta l’Italia aveva tassi di interesse sul debito pubblico che sfioravano il 20%, ma ciò non era ritenuto particolarmente preoccupante poiché battendo moneta, da un lato si generava un’inflazione che consentiva di dissuadere gli attacchi degli speculatori e dall’altro era possibile comprare il nostro stesso debito.

Inoltre, quando la spesa pubblica è orientata a fornire le basi per la crescita economica – attraverso investimenti in formazione, ricerca scientifica, infrastrutture, sicurezza accessibilità ai servizi, ecc. – nel lungo periodo offre concrete possibilità di sviluppo, e assicurare le condizioni per affrontare il futuro è stato il principio guida per l’adozione da parte degli Stati di allargamenti di spesa che andassero oltre quelli teorizzati dallo Stato minimo (governo, giustizia, sicurezza).

Più che tagliare la spesa, perciò, occorrerebbe razionalizzarla e controllarla: infatti, fin quando la spesa è strutturata male, tagliandola non si eliminano gli sprechi ma al massimo si riducono.

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In conclusione:

Avere un pareggio o addirittura un avanzo di bilancio con un Pil negativo è inutile (basti guardare all’Irlanda, che è passata in pochi anni da un rapporto Debito/Pil del 25% a uno del 101%, o al Portogallo e alla Spagna che, pur avendo un rapporto Debito/Pil pari rispettivamente all’87% ed al 70%, sono anch’essi nel pieno degli attacchi speculativi internazionali) e avere solo un bilancio in pareggio non significa uscire dalla crisi, perché l’unica strada per fare ciò è la crescita economica che non può non passare attraverso politiche di rilancio della crescita e politiche monetarie della BCE che non siano ostili all’inflazione.

Ivan Centomani

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