UE 2.0? Sì. “Un’altra strada per l’Ue è possibile”. Conversazione con Roberto Schiattarella

Scritto il 21/04/2013, 07:04.

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Bandiera UE - immagine di pubblico dominioIntervista a Roberto Schiattarella, Professore di Politica Economica, presso la Scuola di Giurisprudenza, Università di Camerino.

Ultimamente sembrano rafforzarsi le tesi che propongono, nel caso di alcuni Paesi, l’uscita dall’euro o l’adozione di un circuito monetario alternativo. Sarebbe una soluzione auspicabile per l’Italia?

Credo che chi parla dell’uscita dall’euro sottovaluti la dimensione politica della scelta. Sul piano tecnico e di breve periodo l’uscita dalla moneta unica pone dei costi altissimi ma apre anche delle possibilità.

Ma fermarsi a discutere di questi aspetti non penso sia opportuno. Al contrario, vuol dire far prevalere una logica economica e di breve periodo su interessi politici ed economici di più lungo periodo, e non solo per il nostro paese.

Vuol dire non cogliere il fatto che l’euro è l’ultima tappa di un percorso che è stato tutto politico e che trova il suo punto di partenza nel tentativo delle classi dirigenti dell’Europa del secondo dopoguerra, di superare i nazionalismi, le divisioni che coinvolgevano i popoli – e non solo la politica – e che avevano portato a massacri che erano sotto gli occhi di tutti.

Probabilmente è evidente che quella stagione è finita così come è finita ai margini la cultura economica che aveva resa possibile quella stagione. La stagione delle costituzioni, quella della tutela dei più deboli è stata sostituita da un’altra che pone al centro le ragioni del mercato, e quindi degli interessi di breve periodo che sono gli unici che il mercato sa riconoscere.

Trenta anni di una politica che si è sempre di più appiattita su questi interessi e su questa cultura ha determinato una forte redistribuzione del reddito che ha indebolito il tessuto sociale del nostro paese, e contemporaneamente lo ha lasciato senza punti di riferimento, senza una capacità di comprendere cosa sta succedendo.

Il logoramento della coesione sociale all’interno dei singoli paesi è stato insieme espressione e causa del prevalere di una cultura del mercato che ha cambiato il buon senso della gente, lo ha allontanato da quel rispetto verso le istituzioni pubbliche che è la base sulla quale può essere edificato ogni progetto di inclusione.

Fino a qualche decennio fa ogni Stato europeo poteva attuare interventi forti nella propria politica monetaria. Adesso che questo potere è delegato alla Bce: come si possono conciliare in maniera democratica i diversi interessi dei Paesi degli Stati membri?

Il problema delle regole è un nodo centrale di questa crisi, alla cui origini ci sono appunto regole sbagliate. Ma è un problema che non riguarda solo l’Europa. D’altra parte la convinzione che le banche centrali non debbano finanziare gli stati nasce prima dell’euro, nella prima metà degli anni ottanta. Sono quelli gli anni del cosiddetto “divorzio” tra banca d’Italia e tesoro.

Il fatto che si sia trovato ragionevole per decenni che prima alla Banca d’Italia e poi alla BCE fosse impedito di finanziare direttamente la spesa pubblica continua ad apparirmi incomprensibile. O meglio, ha un suo senso solo se l’obiettivo è quello di costruire un modello di sviluppo internazionale incernierato sulla finanza. Una regola che ha avuto effetti sui quali ancora non si è riflettuto a sufficienza e che non è certo estranea all’esplodere del problema dei debiti sovrani.

Ma poiché al peggio non c’è mai limite, credo che sia un’altra la regola che ha avuto gli effetti più devastanti sulla coesione politica e sociale in Europa. Ed è la regola secondo la quale quando si creano situazioni di squilibrio l’onere dell’aggiustamento spetti al paese in deficit. Una regola opposta a quella del dopoguerra che aveva permesso a Italia e Germania di riprendersi rapidamente dai disastri della guerra. Una regola che ha un difetto tecnico perché affida l’aggiustamento al paese che meno è in grado di perseguirlo. Ma soprattutto è una regola che ha un forte impatto culturale. Attraverso questa regola sono i paesi deboli che vengono indicati come i responsabili di fronte all’opinione pubblica internazionale delle crisi costruendo in tal modo convinzioni tanto inconsistenti quanto apparentemente ragionevoli. Alimentando i grandi ed i piccoli razzismi tra i paesi e all’interno di ciascun paese. Razzismi che una parte delle classi politiche alimenta per ragioni di consenso.

La crisi della Grecia ha sancito un bivio nel futuro dell’Unione Europea?

Sicuramente sì. Quello che è emerso è la debolezza del patto politico che doveva stare a monte della costituzione dell’euro.

Il semplice annuncio che l’Europa si sarebbe fatta carico dei problemi greci avrebbe evitato l’esplodere della crisi dell’euro. I costi sarebbero stati nulli o infinitamente più bassi di quelli che si sono determinati.

Si potrebbe pensare che la Germania poteva avere un qualche interesse alla svalutazione della moneta unica susseguente alla crisi. E si potrebbe anche pensare che la crisi dell’euro sia stata alimentata anche dal desiderio di nascondere quello che resta uno dei problemi di fondo di questa crisi, e cioè il ruolo internazionale del dollaro.

Ma al di là di queste letture più o meno maliziose, l’impressione generale che si è ricavata dalla gestione politica della crisi dell’euro è quella di una inadeguatezza della politica europea che invece di accettare la sfida alta che veniva da questi problemi li ha utilizzati per fini di consenso interni. Per trovare fuori del paese i responsabili dei problemi che lo sfarinarsi della coesione sociale sta determinando all’interno.

I parametri per rimanere in Europa si fanno sempre più rigidi specialmente per alcuni Paesi che si trovano ad affrontare duri sacrifici e tagli lineari per rientrare nei vincoli imposti. Ma oltre a questo quale può essere il modo migliore per l’Unione Europea per rilanciare l’economia nei Paesi in recessione?

Ovviamente le risposte possono essere molte e a livello europeo possono diventare praticabili.

Si tratta di prendere atto che il mondo pensato negli anni ottanta è crollato e che bisogna disegnarne un altro con nuove regole e con una nuova attenzione non puramente formale alla coesione sociale.

Meno centrato sul mercato e molto meno sulla finanza. Ma si tratta anche di capire che questo è il momento della responsabilità. Come si fa a chiedere alla politica tedesca di fare un salto di qualità, se non siamo i primi a mettere in discussione gli errori della nostra politica. Il fatto che dopo venti anni di disastri Berlusconi continui a godere di un incredibile consenso certo non aiuta la credibilità internazionale del nostro paese, ma proprio per questo dal resto della politica ci si deve aspettare il massimo della capacità di autocritica.

L’Unione Europea potrebbe rappresentare l’opportunità di sviluppo di un modello alternativo e funzionale a quello che vuole il Pil e la domanda di beni in constante crescita o alla fine trionferanno gli interessi dei singoli Stati, specialmente quelli con più potere economico e peso politico?

Certamente. Il semplice fatto che domande come queste vengano poste più frequentemente agli economisti può essere visto come il segnale di una coscienza collettiva sempre più diffusa della necessità di un cambiamento dei punti di riferimento, degli stessi valori intorno ai quali definire cosa sia lo sviluppo. Sono poi convinto che in questo momento gli interessi che condizionano le scelte non siano interessi nazionali, almeno per come li si intendeva 50 anni fa.

La Germania ha tutto da perdere da un collasso dell’euro. Certo non meno dell’Italia.

La debolezza della politica sta anche nel fatto che per la prima volta, almeno dal dopoguerra, i centri decisionali si sono spostati dai luoghi della politica dei grandi stati verso borghesie finanziarie che da quei luoghi hanno preso le distanze e tendono a comportarsi sempre più in una logica cosmopolita. Credo che questo sia forse il problema più grande con cui si sta misurando soprattutto la politica americana ed Obama in particolare.

Roberto Schiattarella scrive su
www.sbilanciamoci.info

(intervista a cura di Andrea Berri)

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