Lo spirito del “giusto processo” connoterà il nuovo procedimento disciplinare

Scritto il 1/02/2013, 11:02.

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Il titolo V della nuova legge forense analizza uno dei temi più importanti e delicati dell’ ordinamento professionale, quello della giurisdizione domestica.

La riforma fissa subito un principio di indubbia trasparenza, sul quale ruota l’intero sistema: quello sancito dall’art. 50, comma 3, che stabilisce che non possono far parte delle sezioni giudicanti i membri appartenenti all’ordine a cui è iscritto il professionista nei confronti del quale si deve procedere.

Tale scelta presenta evidenti garanzie di maggiore terzietà per il giudicante, non tanto per fugare il rischio che si pervenisse effettivamente ad una giustizia più addomesticata quanto, semmai, per l’immagine negativa che si poteva diffondere all’esterno: quella di un professionista troppo indulgente nei confronti di altro collega che con il suo voto avesse, in ipotesi, contribuito all’elezione a consigliere del primo.

Una modifica coraggiosa quindi ma con enormi conseguenze di ordine pratico e strutturale che complicheranno, di molto, l’attività dei Consigli degli Ordini, soprattutto delle città metropolitane.

Insieme alle luci ci sono però anche le ombre perché si priva il giudicante di un elemento importante, talvolta essenziale per giungere ad una corretta decisione: quello dell’ancoraggio al territorio.

È fondamentale, per chi giudica, conoscere la propria realtà territoriale, i personaggi e gli interpreti che saranno i protagonisti nel procedimento disciplinare in quanto la frequentazione quotidiana con l’ambiente giudiziario e l’interlocuzione costante con la magistratura, che talvolta con le sue segnalazioni innesca il giudizio disciplinare, è garanzia di un risultato migliore.

Questo problema veniva risolto con l’impianto ipotizzato dalla riforma tracciata dal DPR dell’agosto 2012 che creava il Consiglio di Disciplina su base territoriale che però incontrava un limite, forse, ancor più grande: quello cioè di affidare alla decisione, non motivata, del Presidente del Tribunale, la scelta dei quindici giudici, tra i quali non vi potevano essere i Consiglieri dell’Ordine in carica, tra la rosa dei trenta nominativi forniti dall’Ordine.

Venendo ora alla disamina del procedimento in concreto non si può negare che lo stesso appaia ben strutturato, moderno, garantista ed improntato sul modello del giusto processo penale.

Il rapporto con il processo penale è infatti di assoluta evidenza e non solo perché viene precisamente enucleato nell’articolo 54 ma perché ogni articolo, in realtà, è connotato di riferimenti importanti al processo penale.

Sintomatica è la chiarezza utilizzata dalla norma all’art. 56 a proposito della prescrizione dell’azione disciplinare, risolvendo alcuni dubbi che l’ “attuale” disciplina porta ancora con sé.

Se infatti è vero, come osservato opportunamente da Ubaldo Perfetti nel suo pregevole testo “Ordinamento e Deontologia Forensi” (Cedam 2011) e come ribadito dalla giurisprudenza del Consiglio Nazionale Forense, che nessuna durata massima è prevista per il procedimento disciplinare, non potendosi applicare il principio del giusto processo al procedimento disciplinare stante il suo carattere amministrativo, l’articolo 56 evita, finalmente, incertezze di sorta ribadendo tanto il termine ordinario (sei anni), che quello di durata massima (sette anni e mezzo).

Tale felice scelta è del resto conforme all’orientamento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 29294 del 15/12/2008 e poi, ancora, Sezioni Unite 8 novembre 2010 n. 22264, che avevano già ritenuto applicabili i principi del giusto processo davanti ai consigli territoriali in tema di impugnabilità delle delibere di apertura dei procedimenti disciplinari.

Delimitare la durata di ogni processo, anche quello disciplinare, in un tempo ragionevole, è un principio di civiltà giuridica e la riaffermazione di tale sacrosanto diritto non dovrebbe, comunque, comportare particolari ricadute sull’amministrazione della giustizia in quanto, ai sensi dell’art. 50, il Consiglio distrettuale di disciplina svolgerà la propria opera con sezioni più snelle, composte da cinque titolari e da tre supplenti e non, come avviene attualmente nei Consigli dei grandi fori, anche con 15 componenti, determinando sicuramente uno spreco di energie.

Un altro momento significativo, che merita di essere analizzato, è quello introdotto dal comma 3 dell’articolo 58 ove è previsto che conclusa la fase istruttoria, il consigliere istruttore propone al consiglio distrettuale di disciplina richiesta motivata di archiviazione o di approvazione del capo di incolpazione, depositando il fascicolo in segreteria. Ebbene il Consiglio distrettuale delibererà senza la presenza del Consigliere istruttore, il quale non può far parte del collegio giudicante.

Finalmente viene eliminato un aspetto che strideva con i principi dell’indipendenza ed autonomia del giudicante, che ormai fanno parte del patrimonio della nostra cultura, in quanto è indiscutibile che la presenza dell’istruttore nel collegio giudicante, con possibilità di argomentazione e quindi di concreto convincimento degli altri consiglieri sulla bontà dell’ipotesi accusatoria, rappresentava un vulnus dell’intero sistema, accrescendo il rischio di uniformarsi ad una tesi preconcetta.

Occorre rimarcare positivamente anche il punto 2 dell’art. 59 che disciplina la possibilità, per l’incolpato ed il suo difensore, di interloquire con il consigliere istruttore, di essere sentiti ed esporre le proprie difese, anche tramite memorie e produzioni documentali.

Tale previsione introduce il contraddittorio anche nella fase delle indagini e richiama indirettamente i poteri dell’indagato di cui all’art. 415 bis del codice di procedura penale, al punto che l’istruttore, avuto riguardo al contenuto delle difese, potrebbe proporre l’archiviazione o, solo dopo il decorso del termine concesso per il compimento degli atti difensivi, chiedere al consiglio distrettuale di disciplina di disporre la citazione a giudizio dell’incolpato.

I richiami alla procedura penale emergono a chiare tinte anche nei termini per il deposito della lista testimoniale e della motivazione della sentenza, prevedendo un termine di sessanta giorni per i procedimenti relativi a decisioni complesse.

In ogni caso, a fugare ogni dubbio, ci pensa la lettera n) del punto 2 dell’art. 59 che precisa come, per quanto non specificatamente disciplinato dal presente comma, si applicano le norme del codice di procedura penale, se compatibili.

La lettera g) del punto 2 dell’art. 59 merita, infine, un autonomo approfondimento anche perché segna la sublimazione del recepimento dello spirito del giusto processo. Si prevede, infatti, come “gli esposti e le segnalazioni inerenti alla notizia di illecito disciplinare e i verbali di dichiarazioni redatti nel corso dell’istruttoria, che non sono stati confermati per qualsiasi motivo in dibattimento, sono utilizzabili per la decisione, ove la persona dalla quale provengono sia stata citata per il dibattimento”.

La conseguenza di ciò è che niente potrà più essere sottratto al contraddittorio delle parti e che nulla potrà essere più utilizzato per la decisione se non si è consentita, in precedenza, una adeguata ed efficace partecipazione della difesa.

Anche nel procedimento disciplinare, quindi, come in quello ordinario, il metodo di conoscenza e di valutazione dei dati acquisiti sarà quello basato sul contraddittorio.

E non è una scelta di poco conto o di modeste implicazioni perché determinerà un procedimento sicuramente più articolato ma anche più accorto e garantista perché la grandezza del metodo accusatorio sta nel fatto che, ove correttamente applicato, riduce il rischio di errori.

L’avvocatura viene così dotata di uno strumento più moderno ed idoneo a garantire il rispetto delle regole deontologiche che connotano la nostra professione e necessariamente potrà essere utilizzato solo da un difensore dotato di cognizioni specifiche e tecniche.

Il valore più importante che sottende a questa riforma, però, non è tanto indirizzato all’interno, rivolto cioè esclusivamente all’adozione del metodo migliore (quello del contraddittorio) per l’amministrazione della giurisdizione domestica quanto, invece, all’esterno e si caratterizza per il segnale che propone alla società civile. Quello cioè che l’Avvocatura ha una organizzazione disciplinare tale che, pur se ispirata al doveroso garantismo, è dotata di strumenti e controlli tali (vedi da ultimo i poteri ispettivi del CNF di cui all’art. 63) da escludere, in radice, una giustizia addomesticata o inefficiente.

Il Consiglio Nazionale Forense e gli Ordini, soprattutto nell’immediato, saranno gravati da impegni e responsabilità rilevanti ma sarà di sollievo pensare che questi sforzi contribuiranno a fornire un attestato di serietà alla nostra professione.

Avv. Mario Scialla
(Consigliere dell’Ordine degli Avvocati di Roma)

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