Sul valore educativo delle leggi

Scritto il 29/04/2013, 11:04.

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AcropoliA dare fondazione e senso alla nostra vita di cittadino può essere ancor oggi, più che l’appartenenza ad una comunità, la legge che questa esprime? Oppure essa conserva, per noi figli non più della polis greca ma di uno Stato plasmato da una storia non lineare, un valore puramente formale, ritrovandosi poi incapace di esprimere un momento fondante?

Ammettiamo pure che la domanda, così posta, abbia del tendenzioso; concediamo al cittadino, e prima ancora all’uomo che conosciamo, la libertà di individuare la fonte e la sostanza di ciò che lo struttura come tale in altro che nelle leggi soltanto. Che poi il Nomos stesso abbia rinunciato alla maestà della maiuscola e del singolare per diffondersi in una pluralità di norme particolari; che la legge, in altre parole, sia divenuta giurisprudenza, dottrina, è un fatto che abbiamo sotto gli occhi e che rappresenta il frutto d’un processo anche traumatico. La frammentazione, la specializzazione del reale è d’altra parte caratteristica dell’oggi.

Dunque non chiederemo all’uomo che conosciamo di riconoscere alla legge un ruolo così essenziale nella costruzione della propria identità da considerare il reato più una violenza perpetrata contro se stessi che la trasgressione di una regola. Però, se della sacralità del Nomos antico sappiamo fare a meno senza troppi rimpianti, non dimentichiamo che la lezione antica attribuiva alla legge un valore ulteriore, costitutivo dell’essere uomo e cittadino: che è quello espresso dalla parola “paideia”.

Qui saremmo tentati di dire che il termine “educazione” non sappia rendere con sufficiente energia la densità del suo corrispondente greco, giacché l’idea stessa, propria del mondo che la produsse, ci appare come una pianta rara, restia ad attecchire fuori dal suo habitat nativo. “L’idea dell’educazione appariva loro rappresentativa del significato d’ogni sforzo umano. Essa divenne per loro giustificazione suprema dell’esistenza della comunità e dell’individualità umana. Così intesero se stessi i Greci all’apice del loro sviluppo.” Con queste parole Jaeger descrive il nucleo irradiante dell’antichità classica nell’opera che egli, significativamente, volle intitolare Paideia.

Dimentichiamoci tuttavia per un attimo che quel processo di continua interazione tra lo sviluppo dell’individuo e lo sviluppo dell’organismo civile, che dell’eccezionalità della polis era il segreto, difficilmente si riesce ad osservare nello Stato moderno; e sforziamoci piuttosto di riconoscere le tracce del concetto di paideia del Nomos nel mondo che conosciamo.

Cominciamo con l’ammettere, a onor del vero, che esempi d’una tendenza anche contemporanea a riconoscere nelle leggi un valore educativo “forte” non sono del tutto assenti: basti pensare allo spirito che animò i lavori dell’assemblea costituente o al testo stesso della Costituzione. Altre espressioni del legislatore conservano ancora il seme d’un principio educativo, anche se, man mano che si procede verso i gradi inferiori delle fonti del diritto, questo sembra affrettarsi a lasciare il posto ad altro: ad un tecnicismo magari imposto dalla necessità dar conto della complessità fenomenica, o a un dettato che è “più spesso destinato alla comunicazione politica di quanto non lo sia alla disciplina dei rapporti giuridici”, come si è espressa di recente una commissione di lavoro sulle riforme istituzionali.

Attenzione però! Che non si spacci per fine educativo ciò che è invece indottrinamento e motivazione ideologica. Il pericolo, gravissimo, è in agguato soprattutto in quei testi legislativi che toccano questioni di carattere etico, e alla redazione dei quali, ferma restando l’autonomia degli organi parlamentari, è necessario procedere soltanto in seguito ad ampio confronto pubblico. Naturalmente, è dovere primario di uno Stato democratico fornire ai propri cittadini – a ciascuno di essi – gli strumenti necessari per prendere parte al dibattito e per esprimere, nelle forme e nei modi che la legge prevede, una volontà informata e consapevole.

Inevitabile tuttavia domandarsi se tutto ciò abbia ancora senso nel momento in cui personaggi – cittadini! – giunti alla ribalta della politica si valgono di un ampio consenso di popolo per insinuare la tesi che il peccato originale stia nell’esistenza medesima dello Stato, stigmatizzato come scaturigine di corruzione e di malaffare. La politica stessa, agli occhi di costoro e di riflesso dei nostri, si rivela incapace di procurare il bene comune.

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