Il sistema penale e penitenziario sotto la lente della Corte Europea dei diritti dell’uomo

Scritto il 18/03/2013, 11:03.

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CEDUCon la sentenza 8/1/2013, Torreggiani e altri contro Italia, la Corte europea dei diritti dell’uomo – organo giurisdizionale del Consiglio d’Europa e non, si badi, dell’Unione Europea – ha condannato lo Stato italiano a risarcire alcuni detenuti per le condizioni inumane e degradanti alla quali sono stati sottoposti durante la loro permanenza in carcere. Ciò in quanto tali ristretti, per lungo tempo, hanno avuto a disposizione una superficie pro capite estremamente esigua.

L’antefatto
Non è la prima volta che il nostro Paese viene condannato per l’eccessivo affollamento delle strutture penitenziarie. In precedenza, con la sentenza 6/11/2009 (caso Sulejmanovic contro Italia), la Corte, dopo avere effettuato un’interessante sintesi dei principi da essa elaborati in argomento, ne aveva fatto concreta applicazione al caso sottoposto al suo giudizio.
Invero, prendendo le mosse dal fatto che l’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) vieta in assoluto la tortura nonché le pene e i trattamenti inumani o degradanti, aveva ribadito il principio per cui costringere un detenuto a vivere in uno spazio molto limitato può costituire violazione di tale regola fondamentale.
La Corte, pur non volendo fornire una misura precisa e definitiva dello spazio personale da garantire a ciascun recluso, aveva chiarito che, al disotto di 3 mq per persona l’esiguità dello spazio sia tale da costituire, di per sé, violazione dell’art. 3 CEDU. Invece, nei casi in cui il detenuto disponga di una superficie compresa fra i 3 e i 4 mq, non si configura automaticamente la violazione della Convenzione, ma occorre valutare tutte le caratteristiche dell’ambiente detentivo e le possibilità trattamentali offerte alla persona ristretta.
Svolte tali premesse, la Corte aveva accolto il ricorso nella sola parte in cui concerneva un periodo – di circa un mese e mezzo – in cui il detenuto aveva avuto a sua disposizione soltanto 2,7 mq. Per gli altri periodi il ricorso era stato respinto, poiché il ristretto aveva fruito di superfici variabili fra i 3,24 e i 4,50 mq e, inoltre, aveva beneficiato di una serie di elementi positivi (possibilità di trascorrere 8 ore e 50 minuti fuori dalla cella, presenza di un bagno attiguo alla stessa, disponibilità di riscaldamento e di luce naturale).

L’epilogo
Dopo la sentenza “Sulejmanovic”, centinaia di ricorsi sono stati proposti da persone detenute nelle carceri italiane. Sette di questi sono stati decisi con la sentenza in commento, nella quale si è fatta nuovamente applicazione dei principi sin qui riassunti, giungendo però a conclusioni assai più sfavorevoli per il nostro Paese.
Innanzitutto, nel caso “Torreggiani” i ricorsi dei detenuti sono stati integralmente accolti, dando luogo a risarcimenti assai più cospicui di quanto non fosse avvenuto nel 2009. Il Governo convenuto, infatti, si è limitato a contraddire le affermazioni dei ricorrenti, senza presentare alcun documento o informazione a sostegno della propria tesi – es. planimetrie o registri degli istituti penitenziari – ritenendo che fosse onere dei ricorrenti fornire la prova di quanto affermato. La Corte ha, però, respinto tale impostazione, ritenendo che l’onere probatorio non possa essere addossato integralmente al ricorrente, essendo il Governo il solo ad avere accesso agli atti in grado di confermare, o smentire, le pretese di controparte.

In secondo luogo, la Corte non si è limita a statuire fra le parti del processo, ma ha pronunciato – con il consenso del Governo italiano – una “sentenza pilota” (arrêt pilote). Si tratta di una speciale procedura, utilizzabile laddove siano pendenti molti ricorsi concernenti una medesima questione. La Corte, se dall’esame di uno o più di questi casi, rileva l’esistenza di un “problème systémique ou structurel” nell’ordinamento di uno Stato membro, pronuncia una sentenza che, oltre a decidere il singolo caso, indica alle autorità nazionali le misure di carattere generale necessarie per rimuovere la disfunzione.

Nella pronuncia in commento, la Corte ha stabilito che se un Paese non è in grado di garantire ai detenuti condizioni conformi all’art. 3 della Convenzione ne deve ridurre il numero, tanto aumentando le misure alternative al carcere quanto limitando l’utilizzo della custodia cautelare. La Corte, va sottolineato, si è detta “frappée” (cioè colpita) per l’elevata percentuale di imputati presenti nei nostri istituti penitenziari.

Inoltre, l’Italia dovrà, entro un anno, individuare rimedi che garantiscano una tutela – preventiva e risarcitoria – per i casi di condizioni detentive inumane o degradanti.

Dott.Ric. Francesco Picozzi

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