L’Educatore Penitenziario. Ruolo, competenze e significato dell’educatore penitenziario per adulti

Scritto il 17/03/2013, 11:03.

LINK TO: Penale

Deborak MocciaLABORATORIO D’ASCOLTO

A cura della dr.ssa Deborak Moccia, funzionario giuridico – pedagogico presso la Casa Circondariale Rebibbia Nuovo Complesso di Roma

 

 

• La figura dell’educatore
• L’esperienza maturata nella seconda metà degli anni Cinquanta presso l’Istituto di Rebibbia: costruzione dell’identità professionale e campi d’azione nell’intervento educativo
• Anni Settanta: le tutele sui diritti ed al trattamento dei detenuti
• Le competenze operative dell’educatore penitenziario

La figura dell’educatore per adulti in carcere è stata introdotta dalla legge 26 luglio 1975, n. 354 nell’ottica di rinnovare le strutture e l’apparato istituzionale con nuove professionalità capaci di dare contenuto reale ai principi costituzionali di “umanizzazione del trattamento” e “rieducazione del condannato” risalenti alla nostra Carta Costituzionale del 1947 di cui all’art. 27 comma 3.

Dopo anni di incertezze sulle metodologie da adottare durante l’esecuzione della pena detentiva, il legislatore riconosce in capo all’educatore penitenziario degli adulti la premessa di una interazione tra conoscenze, competenze, ed abilità.

E’ chiaro che le risposte ai bisogni formativi degli adulti vivono indipendentemente dal sistema organizzativo istituzionale. L’educatore, pertanto, si rivolge al soggetto adulto in formazione per riscoprire opportunità, valori, scelte, nuove interpretazioni sulla propria esistenza, sul proprio “modus agendi” riconoscendo ciascuno nella sua unicità ed irripetibilità.

La professione giuridico–pedagogica, dunque, si traduce in una pluralità di ruoli professionali, che convivono spesso in condizioni di indefinitezza per cui si attribuisce un ruolo decisivo alla capacità di relazione con la quale l’educatore viene a stabilire, mediante una comunicazione competente, una interazione di reciprocità tra le varie figure professionali tale da condurre ad un reciproco riconoscimento.

L’educatore penitenziario, certamente, ha rivestito un ruolo certamente attivo nel processo di affermazione del proprio intervento nel settore degli adulti.

Ad oggi le competenze professionali dell’educatore riflettono la molteplicità dei bisogni educativi le cui risposte non si esauriscono all’interno dell’organizzazione del sistema penitenziario, ma caratterizzano diverse esperienze di vita, quali crisi lavorative, sociali e culturali. L’educatore degli adulti diviene la premessa per la costruzione di ponte nella comunicazione di competenze trasversali in cui si facilita l’incontro tra soggetti, pubblici e privati, con la possibilità di organizzare a livello individuale il conseguimento di obiettivi comuni.

L’attività professionale dell’educatore penitenziario, pertanto, si inserisce nell’ambito dell’educazione permanente degli adulti in quanto si permette al soggetto di costruirsi nuovi spazi di significato superando istanze di conflitto, personali e sociali, per un cambiamento più intenso di sé e con la realtà in cui è inserito.

Nel delicato compito di educatore degli adulti, occorre fare un salto nel passato per considerare, nella sua globalità, la professione giuridico–pedagogica come oggi, quotidianamente, è coinvolta in molteplici ambiti operativi.

L’esperienza maturata nella seconda metà degli anni Cinquanta presso l’Istituto di Rebibbia: costruzione dell’identità professionale e campi d’azione nell’intervento educativo

L’educatore, già presente in ambito minorile, venne introdotto presso l’Istituto Nazionale di Osservazione (I.N.O.) di Rebibbia, istituito con D.M. 30 marzo 1954 per la diagnosi e classificazione dei detenuti adulti che doveva precedere l’assegnazione definitiva del condannato nei vari stabilimenti penitenziari.

Nel 1958, aderendo alle moderne metodologie cliniche statunitensi di psicologia, si giunge alla concezione sistematica di esame della personalità del detenuto definita con l’espressione “osservazione scientifica della personalità”: si tratta di un complesso di tecniche scientifiche a garanzia dello studio globale dell’individuo, risultante dai meccanismi complessi del vissuto personale e relazionale del singolo, al fine di formulare un’ipotesi individuale di trattamento e di indicare le metodologie di trattamento per gli individui ed i gruppi.

Durante il periodo di due mesi in cui si svolgeva l’osservazione: l’educatore seguiva il detenuto nella vita penitenziaria, organizzava le attività di gruppo ed annotava in un rapporto le note comportamentali. Egli annotava in un apposito rapporto comportamentale quanto rilevava durante le attività ordinarie di vita quotidiana, l’applicazione nel lavoro e nella scuola, l’impiego del tempo libero, la dedizione alle attività culturali, la condotta durante la partecipazione ai gruppi, l’aderenza religiosa, l’atteggiamento nei confronti degli altri codetenuti e degli operatori, la cura degli oggetti propri e della persona, l’uso del denaro, i rapporti con i familiari e con il mondo esterno in genere, le manifestazioni emotive e la reazione allo stress. L’educatore era laureato in pedagogia, aveva maturato una lunga esperienza in ambito minorile e ricopriva il profilo professionale di insegnante aggregato, poiché non esisteva ancora il profilo professionale di educatore per adulti.

L’osservazione del soggetto si arricchiva dell’apporto dell’assistente sociale, affidato ad una donna perché ritenuta dotata di “atteggiamento professionalmente controllato” e che, mediante colloqui con il detenuto, raccoglieva notizie ed informazioni sulla vita del soggetto, sulla sua famiglia, sul percorso scolastico e lavorativo, in generale sulle condizioni di vita precedenti al suo ingresso e quelle attuali e che verificava presso Carabinieri e Comuni, poiché allora non vi erano altre figure esterne riconosciute competenti per l’intervento di servizio sociale.

Le capacità ed attitudini specifiche nel campo del lavoro venivano accertate mediante esame psicologico della personalità: lo psicologo si avvaleva dell’inchiesta sociale svolta dall’assistente sociale, dei rilievi comportamentali redatti dall’educatore, e somministrava test o reattivi mentali e svolgeva colloqui clinici con il detenuto. Lo psicologo lavorava in stretto contatto con neuropsichiatri ed elettroencefalografisti: lo studio del sistema psichico del detenuto veniva correlato all’esame funzionale condotto da neuropsichiatri che accertavano l’integrità del sistema nervoso centrale e periferico e l’equilibrio del sistema neurovegetativo del singolo mediante colloqui, mentre i disturbi caratteriali, quali l’immaturità, l’impulsività venivano rilevati dagli elettroencefalografisti. Nell’ambito della sezione di medicina interna, il medico internista accertava le condizioni fisiche dei detenuti e si avvaleva di ricerche di laboratorio e, nel caso, di esami specialistici.

A conclusione del periodo osservativo, il direttore dell’Istituto svolgeva un colloquio con il detenuto sulla base dei dati raccolti dai vari specialisti al fine di delineare un quadro psico-fisiologico globale del soggetto da portare in sede di équipe.

Durante la riunione d’équipe gli operatori, incaricati del caso, discutevano tra loro i risultati ottenuti secondo la rispettiva competenza ed il Magistrato di Sorveglianza, che presiedeva l’assemblea, decideva sull’ipotesi trattamentale in cui prevedere eventuali benefici da concedere al detenuto, con previsione di variazione per le modifiche continue della personalità.

Diversi Istituti si rivolgevano all’Istituto di Osservazione Nazionale di Rebibbia per attività di consulenza specializzata in diagnosi della personalità. Inoltre, si delineò una nuova metodologia di osservazione scientifica (longitudinale) della personalità con il contributo del lavoro del criminologo.

Anni Settanta: le tutele sui diritti ed al trattamento dei detenuti

Ai criteri operativi dell’Istituto di Rebibbia si ispirarono, in quegli anni, anche altri Istituti di osservazione, quali nel 1964 S. Vittore a Milano e nel 1969 l’Istituto di osservazione presso le carceri di Poggioreale a Napoli.

Nel frattempo, però, si registrava la frattura tra la fase diagnostica (osservazione scientifica della personalità) e quella terapeutica (trattamentale) e, nel 1974, un anno prima della riforma penitenziaria, gli operatori del settore denunciarono la notevole disparità di livello di competenze e metodologie specialistiche per la fase diagnostica – osservativa rispetto a quella trattamentale ritenuta alquanto superficiale e di routine.

La riforma penitenziaria, accoglie tali denunce del sistema, e giunge alla conclusione che gli operatori a tempo pieno impiegati presso gli Istituti penitenziari dovranno coordinarsi ed operare congiuntamente, nel rispetto delle specifiche competenze, nel corso della fase osservativa – trattamentale.

Di questi anni sono le “regole minime per il trattamento dei detenuti”, adottate dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa con la risoluzione n. 5 del 1973 e del testo approvato dall’Assemblea generale dell’ONU nel 1955, in cui si affermano livelli di umanizzazione del trattamento dei detenuti al di sotto dei quali gli Stati non potevano scendere.

Il sistema penitenziario del 1975 attua le norme internazionali non senza ripensamenti e contrasti. Lo Stato italiano, infatti, si impegna ad una più avanzata prefigurazione dell’amministrazione impegnata ad assicurare condizioni umane di detenzione, trattamento moderno ispirato ai principi costituzionali in aderenza alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 novembre 1948.

L’approdo della riforma penitenziaria del 1975, unitamente al regolamento di esecuzione introdotto con D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, sarà la definitiva promozione del fine rieducativo della pena e ciò segnerà l’abbandono della logica custodialistica, per cui il carcere resta chiuso in se stesso, privo di misure extramurarie e luogo gli autori di reato vanno tenuti isolati per l’intera durata della pena.

Il ritorno alla società libera da parte di soggetti che hanno espiato la pena, senza aver maturato un percorso graduale di rieducazione, non può soddisfare, prima ancora delle aspettative del condannato, l’interesse della società circa la garanzia che al reinserimento in ambiente libero esterno non seguirà la ripresa a delinquere.

Il carcere, infatti, può essere considerato come luogo di emarginazione sociale del condannato e la pena senza fine, quando il soggetto che esce dal carcere non è convinto che, in qualsiasi situazione di reato venga a trovarsi, debba ritrarsi per il rispetto della legalità e delle regole sociali e non già per la temibilità della sanzione.

La rieducazione, infatti, non coincide con l’imposizione di un modello dominante tesa a deprimere la personalità del singolo, anzi essa è una progressiva promozione sociale dell’uomo in un processo di modificazione continua delle condizioni ed atteggiamenti personali che, nel rispetto del pluralismo culturale, sono di ostacolo ad una costruttiva partecipazione sociale.

Le competenze operative dell’educatore penitenziario

Negli anni che precedono la riforma, dunque, l’educatore è presente esclusivamente in ambito minorile: la riforma rieducativa, avviata ufficialmente nel 1907 con la legge di riordino dei riformatori governativi per minori, sostituendo l’indirizzo punitivo – repressivo con quello preventivo – rieducativo del sistema penitenziario conferiva la gestione degli Istituti minorili agli “educatori”, inizialmente chiamati “istitutori” fino al 1962 con la legge di riordino dei ruoli organici del personale addetto agli istituti di rieducazione.

La figura professionale dell’educatore, infatti, si presentava come la migliore possibile per cogliere i bisogni dei detenuti, per aiutarli a superare le criticità della vita detentiva e rilanciare obiettivi di responsabilizzazione ed impegno sociale. Per il fatto che all’educatore non spetta esercitare in prima persona il potere sui reclusi, gli consente di instaurare con gli stessi un rapporto ispirato alla comprensione gratuita dei loro bisogni, individuali e di gruppo, e quindi facilitare il processo di reinserimento sociale.
L’educatore, infatti, rappresenta l’elemento di raccordo, umanamente e pedagogicamente significativo, tra la realtà “esterna” vissuta dal soggetto prima del suo ingresso in carcere e la personalità che egli esprime “in ambiente detentivo”.

Il bagaglio cognitivo – operativo dell’educatore penitenziario è composito, poiché egli si avvale della conoscenza di scienze umane, quali diritto, sociologia, psicologia, filosofia dell’educazione, scienza dell’educazione, criminologia, tecniche del colloquio, scienza dell’organizzazione, psicologia della personalità, psicopatologia, competenze informatiche e conoscenza delle risorse del territorio.

In ordine alla multiproblematicità della gestione dei detenuti con disturbi della personalità, extracomunitari, tossicodipendenti ed alcooldipendenti, i bisogni formativi degli educatori si accrescono e si richiede una formazione integrata permanente contenente argomenti ritenuti necessari da approfondire anche sotto il profilo dell’area personale, quali la supervisione e l’automotivazione.

Le competenze operative dell’educatore penitenziario si declinano sotto un profilo formale e sostanziale, poiché insieme all’ipotesi di “programmi trattamentali individualizzati” per il reinserimento sociale del condannato o internato, egli deve saper comprendere la persona in senso esistenziale, e non già come “malato” da diagnosticare e curare. L’educatore, infatti, ha la funzione di sviluppare, sostenere, motivare ciascuno ad impegnarsi e costruire un atteggiamento di responsabilizzazione a partire dalla realtà del carcere che gli offre attività e programmi.

L’art. 82 della legge n. 354 del 1975 ed in maniera più dettagliata il regolamento d’esecuzione, ulteriormente precisate dalle circolari in materia di area educativa, contemplano le “attribuzioni” della figura professionale dell’educatore penitenziario per adulti.

Dr.ssa Deborak Moccia

A maggio, nel Laboratorio d’Ascolto sull’educatore penitenziario, saranno trattati i seguenti punti:

1. L’attività di osservazione scientifica della personalità

2. Il programma individualizzato di trattamento

3. I colloqui

4. Il sostegno culturale

5. Il Consiglio di Disciplina

5. I rapporti con la Magistratura e il Tribunale di Sorveglianza e altre attività

 

Leggi “L’Educatore penitenziario” parte seconda

Articoli correlati:

Scrivi un commento

Divertirsi imparando

Iniziative sociali in zona Tribunale

Iniziative sociali in zona Tribunale. Roma, quartiere Prati. Partirà dal mese di marzo prossimo, presso i locali della Parrocchia di Santa Lucia, sita... [Continua]

Corso personalizzato per la preparazione al Nuovo Esame di Avvocato

iscrizioni aperte

Sono aperte le iscrizioni al nuovo corso personalizzato per la preparazione al prossimo Esame di Avvocato 2015/2016. Il corso offre una preparazione... [Continua]

Il Nuovo Esame di Avvocato

Riforma del 2012 (art. 46 Legge n. 247/2012)

La riforma del 2012 (art. 46 Legge n.247/2012) ha introdotto importanti modifiche all’esame di abilitazione all’esercizio alla professione di Avvocato. Dalla... [Continua]

Recente sentenza sul legittimo impedimento

Corte di Cass. Pen. n. 32949/2012

Costituisce legittimo impedimento a comparire in udienza il diritto del difensore di poter partecipare al funerale di un suo prossimo congiunto rappresentando... [Continua]

Attiva i riferimenti normativi con il Parser Normativo

Scarica da www.normattiva.it il software che trasforma in link i riferimenti normativi contenuti in un testo giuridico

Per attivare i riferimenti normativi in un testo è possibile utilizzare il Parser Normativo, scaricabile dal sito NORMATTIVA “il portale della legge... [Continua]

Milano. Chiusura Uffici dell’Ordine degli Avvocati di Milano e della Fondazione Forense

24 dicembre 2012 e 31 dicembre 2012

Gli Uffici dell’Ordine degli Avvocati di Milano e della Fondazione Forense di Milano resteranno chiusi nei giorni 24 e 31 dicembre 2012. Si segnala che: –... [Continua]