Caro soldato, vittima di vilipendio (art. 290 c.p.)

Scritto il 10/04/2012, 08:04.

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Caro Matteo,

la scritta di cui parli nella tua lettera è senza dubbio un’uscita infelice.

[Per leggere la lettera, questo è il link]

E, difatti, se i nostri padri costituenti hanno stabilito nell’articolo 21 della Costituzione che “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”, hanno anche, nello stesso articolo, affermato che: “Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni”.

Quindi, a ben ragione ci ricordi l’importanza di non trasgredire il reato di vilipendio che a volte, purtroppo, come appunto fai notare, sembra essere caduto nel grande dimenticatoio italiano.

L’augurio di morte è, per usare un eufemismo, sempre sgradevole, anche quando è pensato con ironia. È importante quindi – e sembra quasi pleonastico dirlo – che tutta la società, a partire dai politici, prenda le distanze dalla violenza che capita di leggere sui muri, sulle magliette, o (ahi-noi!) di ascoltare in convegni e comizi. Se poi vogliamo ancora riflettere sulla scritta che “adorna” una delle facciate della Scuola Militare Teulié di Milano, viene in mente che, oltre ad essere “intimidatoria”, appare a tutti gli effetti anacronistica.

Infatti, come dobbiamo considerare oggi la figura del soldato?

È ancora viva l’immagine che si è creata, tra gli anni Sessanta e Settanta, del soldato mandato a combattere una guerra ignobile, strumento di morte e vittima dei meccanismi della politica internazionale. Se le guerre prima del 1989 erano giustificate dal mantenimento dell’equilibrio politico tra blocchi contrapposti, oggi – e sempre con maggior frequenza – la loro finalità ultima sembra risiedere nell’intento di mantenere il tenore di vita dei Paesi più avanzati. Si combatte per l’energia, per le materie prime. Anche nelle guerre contro il terrorismo o per la democrazia è difficile, a volte, tenere separati gli aneliti di coloro che vogliono difendere la libertà di espressione dell’individuo dai meri interessi economici.

L’Italia si dispone nello scacchiere internazionale spendendo per la ‘funzione difesa’ (che riguarda direttamente le forze armate) circa 14,32 miliardi di euro. Parte di questo denaro serve a garantire al personale militare una formazione specifica e qualificata. Preparazione che comprende la conoscenza di altre culture, specialmente quelle dei paesi islamici e del mondo arabo, l’uso delle reti e di tecnologie avanzate, la capacità di gestire servizi e soccorrere una popolazione in situazioni di crisi e carenza di infrastrutture.

Perché allora la politica, sfruttando maggiormente esperienze e qualifiche accumulate nel corso della carriera militare, non può ripensare, nell’interesse pubblico, a un impiego più mirato di questi professionisti anche sul territorio nazionale?

Ad esempio, in ambito di mediazione culturale, o nella gestione delle calamità naturali che potrebbero colpire il nostro Paese vista anche la precarietà della sicurezza idrogeologica di alcuni siti e l’assenza di efficaci meccanismi di prevenzione.

Forse, facendo luce e puntando su questi aspetti, si rafforzerebbe nell’opinione pubblica l’idea del soldato più come una risorsa che come una ‘medicina’ forzata.

Andrea Berri

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