Tor di Nona: dal carcere pontificio al primo teatro pubblico romano

Scritto il 13/07/2013, 06:07.

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Memoria del teatro Apollo sul Luongotevere Tor di NonaIl terreno in riva al Tevere, compreso nel rione Ponte, era in origine una vasta palude formata dalle piogge e dalle inondazioni del fiume che correva libero senza argini e rive.

Durante l’ultimo periodo della Repubblica, all’altezza dell’attuale lungotevere Tor di Nona, i Romani costruirono un poderoso molo di sbarco sul Tevere che in seguito servì anche allo scarico delle pietre e dei marmi destinati alle fabbriche imperiali del Campo Marzio.

Tra la porta Flaminia e il ponte Gianicolense (oggi Sisto), Aureliano nell’anno 270 innalzò le mura sulla riva del Tevere; di esse, con il passare del tempo, non rimase il ricordo che in alcune modeste porte, “posterule”, aperte sulle mura stesse, attraverso le quali le merci affluivano a Roma previo pagamento di una gabella.

A difesa di una di queste posterule si innalzava verso il Ponte Elio (oggi Ponte Sant’Angelo) un’ imponente torre, la cui denominazione trecentesca “Torre della Nona” è un’alterazione di Torre dell’Annona, perché utilizzata come magazzino dell’Annona papale per le derrate alimentari.

La torre passò successivamente  nelle proprietà degli Orsini e, nel 1395,  Giovanni di Giacomello Orsini, la lasciò all’Arciconfraternita della Compagnia del Salvatore che, a sua volta, la diede in fitto a Gian Paolo di Carbone, il quale ebbe l’incarico di trasformarla in una prigione.

Le carceri di Tor di Nona, dipendevano inizialmente da un ufficiale della Curia Pontificia, chiamato “Soldano” che per un periodo fu “ufficio vacante” o “venale”.

In seguito, per limitare gli abusi nei confronti dei detenuti, questa carica fu affidata alla Compagnia di San Girolamo della Carità.

La prigione poteva contenere fino a duecento reclusi. Una parte della torre era destinata ai condannati a vita, mentre in basso si trovava il “fondo”, dove venivano rinchiusi i colpevoli dei delitti più efferati.

In alto c’era l’atroce camera delle torture, come la “veglia”, che consisteva nell’obbligare il prigioniero a restare sveglio in posizioni molto scomode, per un certo numero di ore.

Tor di Nona presentava al suo interno le due divisioni fondamentali previste dai trattatisti carcerari del tempo: il reparto delle “segrete” e quello delle “larghe”.

Nelle “segrete” si rinchiudevano gli imputati di gravi reati in attesa di giudizio, e se, in seguito a questo, si pronunciava la condanna a morte, vi rimanevano fino all’esecuzione.

All’interno della torre  si svolgevano anche le esecuzioni capitali.

Forse per questo motivo, nelle antiche piante della città, l’edificio viene rappresentato da una torre con una corda penzolante. Nelle “larghe” – reparto vasto e luminoso ove si godeva una certa libertà – si rinchiudevano i liberati dalle “segrete”, gli arrestati per reati minori e i debitori.

All’interno del carcere vigeva un triplice criterio di ripartizione: la separazione delle donne, l’isolamento degli uomini e dei giovani, la divisione degli esaminati dagli esaminandi.

Mancava una netta distinzione tra i criminali e i carcerati per debito.

Poiché il detenuto doveva vivere e farsi giustizia a sue spese o con l’obolo delle confraternite della carità, il custode concedeva i posti più confortevoli in relazione alla disponibilità economica del carcerato.

La parte inferiore della torre era soggetta a frequenti inondazioni e talvolta le acque raggiungevano il sotterraneo con tale rapidità da annegare i detenuti, come avvenne nel 1598.

Nel 1599 a Tor di Nona furono rinchiuse Lucrezia e Beatrice Cenci, prima di essere condotte al patibolo e l’anno seguente Giordano Bruno vi trascorse le sue ultime ore.

Divenute anguste e in parte cadenti, la prigioni di Tor di Nona furono soppresse nel 1655 da Innocenzo X, il quale fece edificare quelle su Via Giulia, che furono dette “Nuove”.

Da allora l’edificio rimase per alcuni anni inutilizzato finché non venne in parte adibito a Teatro.

In seguito il conte D’Alibert, segretario della regina Cristina di Svezia, trasformò la torre nel primo teatro a pagamento di Roma, inaugurato solennemente nel 1671 con Scipione Africano di Francesco Cavalli.

Distrutto da un incendio, risorse dalle sue ceneri nel 1795 e venne ribattezzato Teatro Apollo.

Acquistato dal principe Giovanni Torlonia e ristrutturato dal Valadier visse la sua stagione d’oro ospitando numerose grandi prime, tra cui il Trovatore  e il Ballo in Maschera di Giuseppe Verdi.

Ceduto nel 1869 al Comune di Roma, venne demolito vent’anni dopo per la costruzione degli argini del fiume.

Solo una stele con fontana oggi tramanda il ricordo del teatro Apollo che aprì “le dorate scene e dove foscheggiò Torre di Nona, libera si diffuse la pura melodia italiana…”.

Raffaella Rinaldi, Presidente dell’Associazione Culturale Artable

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