Il processo atto creativo. Annotazioni
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Processo, nelle molte articolazioni del termine, è innanzitutto dialettica: è schierarsi bellicoso di una pluralità di istanze, è dispiegarsi del mutamento, trionfo della strutturale non-univocità del reale.
Ed è nello stesso tempo sequenza razionale di azioni tese ad uno scopo condiviso. Specchio, dunque, e quintessenza della vita.
A maggior ragione ciò vale quando, tra tutte le accezioni della parola, si scelga quella che appartiene al linguaggio giuridico.
Ché forse, più che nelle altre, in questa il processo diventa l’agone su cui lottano tutte le tensioni e le passioni da cui l’uomo è fatto tale: ergo occasione ghiotta per l’artista che voglia rappresentare, della vita, l’intensità e la pienezza.
Così che capita assai spesso d’imbattersi, in un libro o al cinema o al teatro, nella descrizione o nella rappresentazione di un processo penale, a cui spesso corrisponde un punto nevralgico dell’economia narrativa.
Il processo è perciò un tòpos dell’arte, un termine ricorrente del linguaggio teatrale, cinematografico, letterario; e val la pena di ripercorrerne la storia, per riconoscere alla fine del viaggio quanto di universale e di fondante vi era commisto fin dall’inizio.
Quel che segue è una spigolatura veloce ed estemporanea di rappresentazioni artistiche del processo penale inteso come istituto culturale e giuridico, con una parzialità non trascurabile per le belle lettere.
Oltre alle debite apologie per la (ovvia) carenza di esaustività, è d’obbligo precisare che limiteremo il campo d’indagine, dimenticandoci dei resoconti di processi “storici” di cui abbondano le storie della letteratura.
Il lettore cercherebbe qui inutilmente i nomi di Giovanna d’Arco o di Gilles de Rais; ché quel che ci interessa non è la cronaca, per quanto illustre, ma l’atto creativo che trova nella rappresentazione del processo penale una magnifica materia per esercitarsi.
Perfino nelle arti figurative non mancano esempi di un uso strumentale del processo per fini che vanno oltre quello puramente rappresentativo.
Il criterio della nostra scelta miete subito una vittima illustre: dobbiamo rinunciare a trattare della rappresentazione platonica del processo a Socrate, quel ritratto tutto luci e ombre della società attica che è insieme la glorificazione più che la difesa di un uomo.
Ma ci si ricordi poi del dialogo tra il filosofo e le leggi della polis (quasi un secondo processo dalla prospettiva rovesciata, da celebrarsi non più al sole della piazza ma nel cuore della notte, come un convegno di streghe) che fa del Critone insieme complemento e specchio deformante dell’Apologia.
Il dialogo platonico, d’altra parte, s’inserisce in tutta una tradizione, quella ateniese, di grande sviluppo d’una letteratura che potremmo chiamare “forense”: testi ed orazioni composti da retori per conto di chi, chiamato in giudizio, non possedeva la padronanza di quell’arte del dire senza la quale non era facile trarsi d’impaccio.
Gli autori prezzolati furono detti “logografi”, e se ci fu del biasimo in quell’etichetta (ce lo testimonia la cura che Isocrate mise nel far dimenticare di essere stato uno di loro, in gioventù) non dimentichiamo che furono logografi anche un Antifonte, un Lisia, un Demostene.
D’altra parte la peculiarità era giustificata dalla struttura della procedura penale attica.
Prevedibile poi, ma imprescindibile è l’accenno all’Antigone sofoclea; la quale, se non mette in scena un vero e proprio processo nel senso moderno del termine (ma la “pecca” è stata emendata in alcune riletture moderne del dramma, come in una recente rappresentazione a Velia) esprime comunque uno scontro potente tra l’atto libero della volontà (e dunque la legge interiore che l’ha ispirato) e la legge dello Stato.
L’eroina reca sepoltura alle spoglie del fratello contravvenendo all’editto del tiranno: è meritevole di punizione? E se sì, in nome di cosa?
È evidente che si punta dritti ad un interrogativo sulla possibilità, per la legge fatta dagli uomini, di essere portatrice d’una eticità e d’una giustizia intrinseche.
Roberto Reale
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