Danubio, il fiume europeo

Scritto il 6/02/2014, 01:02.

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Delta del DanubioChi volesse costruire un’estetica del Danubio dovrebbe prendere le mosse dalla premessa che laggiù batte il cuore ancestrale dell’Europa: non soltanto nel senso che il grande fiume è più vicino alla comune Urheimat di noi Europei di quanto lo sia il pur arcaico Mediterraneo, ma nella più forte accezione che proprio attorno al Danubio l’identità dell’Europea moderna potè emergere, per la prima volta, come somma di istanze in equilibrio. Equilibrio bellicoso e sofferto, naturalmente, ma pur sempre equilibrio.

Ogni fiume lega a sé con forza irresistibile le terre che attraversa; diversamente da quanto possa fare il mare, intreccia tra esse legami sottili di interdipendenza; non ne appiattisce le culture, ma, pur proteggendone la specificità, le armonizza, aiutando nella costruzione di un linguaggio comune.

Ed il fiume è anche frontiera: così il Danubio, che fu per un suo tratto confine dell’impero, è per i popoli rivieraschi quel limes che lascia intuire la presenza, più che di un altro-da-sé (come avviene tra sponde opposte di un mare), di un altro-sé, di un sé declinato magari secondo moduli distinti dai propri, ma comunque mai radicalmente diverso, mai strutturalmente incompatibile. Può anzi accadere l’opposto: che oltre la riva si scopra un sé più autentico, una contiguità più evidente con le proprie radici. Ne è esempio il Serbo che riconosce con nostalgia la scaturigine della propria identità in un primitivo slavo dalla cui antica dimora il Danubio materialmente lo separa.

Il grande fiume raccoglie nel suo corso, nella rete sterminata dei suoi tributari, una eredità umana incredibilmente varia. Popoli storie e lingue intrecciano in infiniti modi i loro destini lungo i duemila ottocento chilometri d’acqua che attraversano dieci nazioni, contorcendosi di continuo lungo un cammino fatto di anse e “ripensamenti“: come se una mano gigante avesse voluto stendere sulla mappa d’Europa un nastro che legasse insieme il maggior numero possibile di genti e di terre.

E nel tempo in cui, tramontato il manicheismo dei grandi blocchi, si gioca la partita di una nuova e più profonda unione dei popoli, come potremmo non rivolgere laggiù, verso il cuore d’Europa, uno sguardo commosso, non più annebbiato da distorsioni di regime, giudizi affrettati o da una pretesa distanza di costumi e di storia? Uno sguardo che può più essere affrettato o deformante, ma a cui si chiede, all’opposto, una lucidità e una persistenza che sappia leggere le istanze dei popoli all’interno di una situazione geopolitica liquida anch’essa come le acque del Danubio.

Di questo sguardo può – deve anzi – essere componente l’interesse antropologico, la difesa delle minoranze etniche e del patrimonio folkloristico: ma, naturalmente, come si addice a chi va in cerca delle proprie stesse radici, dobbiamo guardarci dal pericolo di una condiscendenza paternalistica in cui si cela la presunzione d’una superiorità. Ed è ben attento a non cadere in questa trappola il viaggiatore dal cui “diario fotografico” di viaggio queste note hanno origine: Marco Bulgarelli.

Quarantenne, fotografo di mestiere non nuovo agli sconfinamenti documentaristici (nel sud-est asiatico; in India; nel mondo arabo), Bulgarelli manifesta interessi di lunga data sulle trasformazioni urbane e sociali nelle capitali europee; e oggi espone al Museo di Roma in Trastevere quarantasette sue fotografie, scattate durante sette viaggi nell’arco di due anni e raccolte sotto il significativo titolo “Danubius“.

Come già Claudio Magris nel romanzo che, anch’esso, reca come titolo il nome del grande fiume, il fotografo segue lungo il suo percorso il senso della corrente e annoda, come perle attraversate da un filo, le città maggiori che il Danubio attraversa, indugiando in quelle che gli sembrano degne d’interesse speciale: vuoi per uno speciale pregio architettonico o storico, per una vocazione industriale o perché custodi di antichi riti. Ulm, Linz, Vienna, Budapest, Mohács, Novi Sad, Belgrado, segnano altrettante stazioni di una “via crucis” virtuosa (di un viaggio di formazione, anzi); i passi, misurati lungo i corridoi del Museo, hanno una loro segreta corrispondenza con le distanze reali.

Le quarantasette immagini (diapositive medio formato, scattate con una Mamiya 7 II, a colori) sono lucide e analitiche, perfino con una punta di compiacimento didascalico, quando c’illustrano le ragioni della prosperità bavarese o austriaca; attente a cogliere il dettaglio della sperimentazione urbanistica (a Vienna), tenere e calde quando ci mostrano un’inedita Serbia primaverile, più serena dopo le ferite della guerra; rispettose, quasi da etnografo, nella presentazione di vasti scorci di vita della comunità lipovana (“genta del Delta”, di antica ascendenza russa). Raggiungono infine toni di denuncia sociale quando s’attardano ad analizzare la desolante condizione della città di Sulina, punto estremo della Romania dove il fiume già confonde le sue acque con quelle del mare: città di frontiera, un tempo florida ed ora tagliata fuori dalle autostrade dello sviluppo.

Il fiume è sempre esso stesso percorso, e andar fino in fondo comporta dei rischi: costringe a prendere contatto con una realtà inconsueta, con un aspetto di sé che non sempre si può o vuole tenere visibile. Andare fino alla foce però è necessario: perché significa toccare il limite estremo del sé, oltre il quale c’è il mare e dunque, finalmente, l’Altro.

Roberto Reale

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