Architettura e urbanistica nel rapporto con il crimine
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Le teorie ecologiche della criminalità tendono a dimostrare l’esistenza di una relazione tra struttura dell’ambiente urbano e tassi di criminalità.
Negli anni ‘30, Shaw e McKay, sociologi esponenti della cosiddetta Scuola di Chicago, sostenevano che, in condizioni di deterioramento delle aree, dovuto a sovraffollamento, cattive condizioni di vita e degrado ambientale, la comunità locale non riesce più a svolgere alcun tipo di controllo sociale spontaneo.
Sulla base dei risultati delle numerose ricerche effettuate, i due studiosi elaborarono il Chicago Area Project, un importante progetto di prevenzione della delinquenza avente la finalità di diminuire la disorganizzazione sociale e aumentare la coesione comunitaria.
Negli anni ‘70 gli studi ecologici si svilupparono notevolmente, focalizzando l’attenzione sullo spazio fisico come luogo di compimento delle attività criminali.
Per Brantinghams lo spazio diventa la quarta dimensione del delitto (dopo la legge, il criminale e la vittima).
Oscar Newman, architetto, finalizzò quindi i suoi studi all’elaborazione di un programma di prevenzione del crimine basato sulla nozione di “spazio difendibile”: l’ipotesi di base era quella secondo cui la criminalità si poteva prevenire tramite un’attenta progettazione architettonica volta ad eliminare le “terre di nessuno” e a creare spazi difendibili spontaneamente dalla comunità.
Un altro filone di studi sugli aspetti ambientali della sicurezza urbana fa capo all’opera dell’antropologa americana Jane Jacobs, la quale fonda la sua teoria su due grandi ipotesi:
– la sicurezza di un territorio è legata alla vitalità dei quartieri; “l’occhio sulla strada” da parte degli abitanti è il primo elemento che garantisce sicurezza;
– la sicurezza urbana dipende molto dal grado di identificazione dei cittadini con il territorio; il sentimento di appartenenza all’ambiente di vita, infatti, incentiva comportamenti di protezione dello stesso.
Jane Jacobs, tramite un’attenta osservazione di un quartiere di New York, enuclea alcune caratteristiche ambientali che rendono un quartiere sicuro; in particolare si possono identificare tre elementi fondamentali:
– un quartiere è tanto più sicuro quanto più vi è commistione di attività. (In questo senso la Jacobs rigetta l’idea della rigida omogeneità funzionale e morfologica dei quartieri);
– un quartiere è tanto più sicuro quanto più è chiara la delimitazione tra spazio pubblico e spazio privato, evitando la formazione di “terre di nessuno”;
– un quartiere è tanto più sicuro quanto più gli abitanti possono esercitare spontaneamente un controllo sullo stesso; da qui l’esigenza di progettare edifici e spazi in modo tale da rendere possibile “l’occhio sulla strada”.
Il pregio dell’approccio ecologico risiede nell’avere coniugato due saperi tradizionalmente non comunicanti come la criminologia e l’urbanistica, aprendo così nuovi orizzonti per l’elaborazione di politiche che riducano l’incidenza della delinquenza.
Ed è forse proprio l’interconnessione tra campi del sapere apparentemente così distanti l’elemento nuovo e assolutamente attuale di tali teorie.
Ma quali sono i risultati sul piano della riduzione della criminalità nelle esperienze di questo tipo?
Gli studiosi della Scuola di Chicago e i loro successori hanno avuto il merito di focalizzare l’attenzione su elementi (spazio urbano e territorio) poco considerati dalla criminologia tradizionale.
La centralità del crimine e della sua prevenzione, tramite la riduzione delle opportunità ambientali, tuttavia, costituisce un limite all’utilizzo di tali teorie, perché ne vincola l’efficacia alla considerazione di una reale diminuzione dei tassi di criminalità.
La manipolazione dell’ambiente urbano, invece, indipendentemente dalla sua idoneità a ridurre la criminalità, può rivestire un’utilità effettiva (valutabile empiricamente) soprattutto nel campo della sicurezza urbana.
La conformazione urbanistica del territorio, infatti, incide sulla percezione di insicurezza delle persone.
Il degrado urbano contribuisce ad una diminuzione di attaccamento delle persone al proprio territorio, riducendo così il livello di integrazione sociale e le occasioni di controllo sociale informale.
Infine, la presenza di uno spazio fisico poco “intellegibile”, vale a dire poco usufruibile per la presenza di ostacoli fisici od ottici, contribuisce a strutturare la percezione di insicurezza di quello spazio, il suo abbandono e, in definitiva, la sua maggiore capacità recettiva di fenomeni devianti.
Dr.ssa Flaminia Bolzan Mariotti Posocco – Criminologa
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1 commento su “Architettura e urbanistica nel rapporto con il crimine”
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19 Aprile, 2017, 14:41
[…] La Scuola di Chicago, nella prima metà del 1900, ha realizzato i primi studi sistematici sulla città. Robert Park, importante esponente della Scuola di Chicago, esaminò attraverso i suoi studenti e collaboratori le componenti della città, giungendo alla conclusione che essa potesse essere sezionata in cerchi concentrici, con al centro il quartiere degli affari. La mappatura della città mise in evidenza che l’incidenza dei problemi sociali e della criminalità è inversamente proporzionale alla distanza dal centro (http://www.leggeweb.it/psyche-et-ius/architettura-e-urbanistica-nel-rapporto-con-il-crimine-9448.htm…). […]
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