A partire dagli effetti che il carcere produce sul corpo: sofferenze senza nome

Scritto il 6/03/2014, 11:03.

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Prison (immagine di pubblico dominio)Il carcere si caratterizza come istituzione totale portatrice in sé di un “surplus” di sofferenza psico-fisica che si aggiunge alla segregazione.

Ancora oggi, infatti, nonostante l’intangibilità del corpo del recluso sancito dal Beccaria e l’interdizione della tortura e della menomazione fisica del condannato, dobbiamo considerare la detenzione come pena corporale, in quanto il carcere provoca dolore che può portare malattia e morte. Anche nelle migliori intenzioni, la pena detentiva è pena corporale.

Prospettive
Il tema affrontato solleva con forza il dibattito sulla richiesta di possibili alternative alla pena detentiva. Una prospettiva in cui potrebbero aprirsi prospettive all’inclusione della nuova organizzazione della medicina penitenziaria con ulteriori strumenti applicabili alla reintegrazione dell’individuo e alla prevenzione sociale. Un condizionale certamente scivolato tra le righe per ritrovare il senso alla sofferenza che, quotidianamente, è vissuta nel mondo penitenziario.

Sofferenze senza nome
La sofferenza legale che il carcere produce sul corpo del recluso sembra essere la causa principale di destrutturazione e debilitazione del detenuto, in quanto produce quei mali che, pur restando nell’ombra, colpiscono l’individuo e che si spiegano in sofferenze senza nome.

In carcere vi è una particolare sofferenza non diagnosticabile, fine a se stessa che la medicina non ha certo il compito di eliminare.

E’ una particolare sofferenza che trova spiegazione nella scelta della società di delimitare la libertà della società con il ruolo punitivo, segregativo riconosciuto al carcere.

Ed è anche un tipo di sofferenza che, in diversi casi, non si arresta con il termine della pena, poiché essa segue la persona anche una volta scarcerata.

Si parla di stress da segregazione per ricondurre i diversi mali connessi alla reclusione e, senza dubbio, ci sono ripercussioni negative di enorme disagio che vive l’individuo fin dal suo primo ingresso in carcere. Il detenuto, infatti, si sente incapace dei suoi passi, tagliato fuori dal mondo, aspetta l’avvocato, attende il magistrato, tutta la sua vita dipende da qualcun altro.

La mancanza di comunicazione produce malessere e per il fatto di poter incontrare soltanto operatori penitenziari nel contesto di un ambiente temibile provoca disagio tanto più quando l’individuo è per la prima volta dentro una struttura che non conosce della quale si sente sperduto.

Il carcere porta in sé un sapore aspro che accompagna il detenuto dal suo accesso in Istituto a tutti i momenti in cui si misura con le condizioni del sovraffollamento.

La disponibilità del personale penitenziario è ciò che può offrire di più prezioso per lui.

Incontrare di rado gli operatori porta all’isolamento che è quanto di più temuto dal detenuto, perché incontrando l’operatore, invece, egli può ossigenare la ristrettezza abituale con una propria segnalazione, con la comunicazione di una necessità e ritrovare “sostanza umana” nell’incontro con l’altro dopo che all’ingresso egli si era dovuto svuotare di quanto era in suo possesso.

Chi entra in carcere per la prima volta si sente sperduto, gli sfuggono i parametri del tempo e dello spazio.

La geografia del luogo del carcere è scandita da percorsi obbligati della reclusione che si ripetono costantemente e producono effetti invisibili in chi lo abita. Tanti di questi fattori sono intraducibili, poiché basati sulla risonanza fonetica di parole, odori, sguardi.

Il carcere si compone di porte dall’aspetto severo che si aprono ad altre porte e cancelli che fronteggiano ostacoli senza sosta. Ogni porta apre alla presenza di chi si porge con spioncini, telecamere, sportelli laterali, e vi è sempre uno sguardo che scivola tra i battenti.

Rumori reitereati del tintinnio delle chiavi che urtano tra loro, lo schiocco metallico del battente contro lo stipide sono funzioni rituali che porte e cancelli non possono evitare nello spazio del carcere.

Il carcere è un mondo di silenzio e rumori contrastanti.

La giornata del detenuto, che ha perso la dimensione della gestione autonoma del proprio tempo, dell’intimità, è scandita dall’apertura e chiusura di porte, cancelli che arrivano alle scale, a corridoi senza fine.

Dietro alle sbarre i detenuti passano le braccia, comunicano tra loro nello spazio amplificato del corridoio che li separa. Nel carcere tradizionale la luce perde per prima la libertà di risplendere, all’interno del carcere i numerosi corridoi tra loro comunicanti svelano un chiaroscuro senza vivacità, per cui lungo al canale di corridoi che portano i detenuti ai colloqui, ai diversi uffici interni predomina il grigiore comune.

L’odore del carcere è inconfondibile, perché una volta individuato si riconosce dappertutto.

E’ un particolare sentore di umido misto alle esalazioni provenienti dalla cucina, tabacco e miasmi vari di muffa e sporcizia che si impregna dappertutto.

L’odore del carcere è un forte marcatore per chi lo abita: il detenuto ti viene a dire che si è trasformato in “galeotto” quando non sente più il suo odore perché significa che ha adottato quello della galera. La detenzione modifica il senso dell’olfatto che può giungere fino all’anosmia. L’operatore penitenziario che, a un certo punto della carriera, vive la dimensione della “carcerite” come una sorta di odio – amore per tutto quello che è carcere e si porta addosso negli anni quell’atmosfera vissuta dentro.

La cella è il territorio in cui si racconta l’uomo-detenuto in tutto ciò che lo rappresenta, che diventa accessibile a chi accetta di conoscere il malessere del suo vivere quotidiano.

Le celle sono spazi che si aprono sui grandi corridoi. Gli Iistituti sovraffollati offrono celle stipate di persone in cui si accumulano, in senso orizzontale, letti, due o tre sgabelli, un piccolo tavolino, un lavabo, un vaso sanitario, e tutti gli altri generi di arredo e vestiario consentiti dall’amministrazione, tipo qualche volta un piccolo fornellino per riscaldare e qualche paio di calzature. In verticale, ad un’altezza non superiore a tre metri, tre letti sono organizzati a castello su materassi ignifughi e con lenzuola predisposte dall’amministrazione. Di fronte ai letti sono disposti piccoli armadietti spesso privi di ante, e il televisore è collocato su una staffa che viene concesso dall’amministrazione.

Di solito, dentro la cella, i codetenuti organizzano tra loro uno stendibiancheria con un breve cordino da cui pendono calzoni, calzini, canottiere e camice. Lo spazio della cella è invaso da rumori assordanti ed invadenti tra cui quello del televisore, del cigolio dei letti arrugginiti, dei colpi battuti delle porte per chiamare gli operatori e delle voci continue che percorrono i corridoi lungo la sezione. Va aggiunto che non sempre si trova in cella il muretto divisorio per i servizi igienici del wc, allora viene attaccata alla parete una coperta che crea un ambiente separato dalla zona letto.

In cella l’atmosfera si fa ancora più pesante sia per l’inquinamento acustico che il ristretto vive nella propria quotidianità, ma anche per il vapore emanato dai vestiti stesi ad asciugare che vanno ad aggravare le condizioni corporali perché ci sono detenuti che non dispongono di cambi di generi di abbigliamento e sono costretti ad indossare abiti ancora umidi oppure quelli offerti dai volontari ai quali si affidano per i rispettivi bisogni.
A volte, per alcuni carceri sono stipulati accordi con biblioteche comunali che prestano al carcere più volte al mese dei libri nuovi ed attraverso queste opere di qualità alcuni detenuti “divorano” il tempo leggendo con regolarità i classici della letteratura e tanto altro. Al termine della pena i testi ricevuti all’esterno devono essere restituiti. A volte capita che il detenuto “si mette in tasca” il libro per continuare la riflessione anche all’uscita dal carcere.

In carcere la lettura è fermento di grande umanità che ha il potere di sciogliere nodi che stringono dentro perché già nella donazione del libro da parte dell’operatore il detenuto scopre la possibilità di comunicare per altre cose interessanti, di apprendere e raccontarsi attraverso momenti di riflessione, diari personali redatti durante le ore più intime della reclusione.

Nel lavoro autobiografico il detenuto acquista consapevolezza della propria solitudine, il condannato impara il rimorso del suo crimine e a distaccarsene, e si interpretano tradimenti, assassini, denunce stando nella cella che si rivela tempo e spazio di evasione con la lettura e le attività personali rispetto alla propria solitudine detentiva.

La lettura si rivela un importante beneficio anche per il detenuto in isolamento. Tale è la condizione maggiormente temuta in carcere, perché costituisce una punizione che porta il condannato ad una profonda solitudine in quanto, non potendo disporre durante il giorno che di una cella vuota con un unico letto e sgabello, la lettura di giornali, riviste, libri suscita interesse e motivazione al reinserimento nella comunità.

Va da sé che anche la lettura provoca effetti sul corpo del recluso, in quanto i medesimi caratteri tipografici delle pubblicazioni affaticano, nel tempo, la vista dei detenuti che vivono in un campo visivo ridotto per gli spazi consentiti dalla segregazione e numerose sono le richieste di visite oculistiche.

Anche l’indebolimento dello sguardo è un ulteriore effetto che produce il carcere sul corpo dei detenuti che lamentano una “vista corta” per cui numerose sono anche le richieste di lenti necessarie per leggere, studiare, vivere la socialità, scrivere una lettera.
La lettera in carcere è il mezzo di comunicazione più utilizzato dai detenuti che riesce a mantenere costanti e vivi alla memoria, parola dopo parola, rapporti con familiari a volte bruscamente interrotti con il reato e che sembrano non esaurirsi con la detenzione a motivo di tanti giorni di prigione che ricordano da lontano giorni diversi che ciascun detenuto conserva nel proprio universo di un mondo volutamente tenuto separato dal carcere.

In carcere il detenuto ritorna alla scuola elementare, non sa bene cosa fare e riprende attività che, da molti anni, non praticava più, come il disegno e la pittura.

Decora le sue lettere con immagini che rivelano tenerezza e nell’arte trova un altro mezzo di evasione dall’angustia dei luoghi di prigione e di libertà di espressione della propria amabilità per la vita che lo coinvolge quale attore esistenziale della reclusione.

L’installazione degli apparecchi televisivi all’interno delle celle evidenzia un ulteriore effetto sul corpo dei reclusi che si lamentano di trovarsi troppo vicino agli occhi lo schermo e di essere costretti ad autodisciplinarsi per poter scegliere il canale di trasmissione del programma televisivo. Qualcuno lamenta che in prigione lo sguardo segue gli stimoli impoveriti e che suono ed immagini recepite dalla televisione conferiscono una parvenza d’anima al grigiore di chi giace in cella.

Altri detenuti, invece, restano ore ed ore immobilizzati davanti alla televisione, avvinti dall’immagine ininterrotta di colori e forme e sfilano immagini curate e notizie aggiornatissime di cronaca e gossip. Gli operatori di sezione sono concordi nel ritenere che la televisione in cella è un ausilio efficace di intrattenimento e distensione per la detenzione.

Il detenuto, come colui che ha problemi di vista, si orienta principalmente tramite suoni e vede localizzare e interpretare i minimi rumori.

Mantenere l’udito in una condizione di allarme costante provoca disturbi dovuti alla cacofania delle serrature, della sbarre, delle risonanze metalliche e delle grida. Alcuni detenuti riferiscono che “per navigare nell’oceano carcerario, ciascuno è dotato della propria antenna – tipo sonar – che capta segnali e orienta la sensibilità dell’udito normale”.

Anche il tatto viene fatto prigioniero. Quei materiali che possono creare problemi alla sicurezza dei reclusi sono banditi all’interno della cella e nel tempo si perde la dimensione del contatto come, ad esempio, il detenuto che vorrebbe toccare il collo di una bottiglia di vetro, non di plastica.

La superficie cutanea esterna si indurisce e si abbandona la speranza dell’incontro con la pelle del corpo. Un detenuto racconta che soltanto con l’acqua della doccia riusciva a sentirsi rassicurato e riorganizzare le immagini intime come se tutto gli scivolasse addosso nella ripetizione dei gesti quotidiani.

Il lavoro in carcere è l’attività più ambita per i detenuti, ma la maggior parte delle carceri non ha locali abbastanza spaziosi per attrezzare officine e le apparecchiature sono ridotte a motivo di spazio e sicurezza. Esperienze a più elevato contenuto industriale sono state realizzate nel corso degli anni con investimenti da parte dell’amministrazione penitenziaria, ma che non hanno mai impiegato l’intera popolazione detenuta e che non riguardano più del 10% dei ristretti.

Si tratta di attività a carico dell’amministrazione penitenziaria che non richiedono specializzazioni, come la pulizia dei locali di uso comune, delle docce, della manutenzione degli impianti di riscaldamento, il trasporto dei pasti dalla cucine alle celle.

Per altri lavori, invece, sono apprezzate le professionalità dei detenuti, come per gli elettricisti, i muratori, i pittori richiesti per la manutenzione dei locali ed il rifacimento della struttura muraria del carcere. Molto ambita è anche la posizione del bibliotecario che regolarmente cura l’archivio della biblioteca del reparto e la consegna ed il ritiro dei testi presso le celle e si coordina con i volontari e l’educatore incaricato del servizio. La maggior parte dei detenuti sono iscritti alla cassa di previdenza e malattia per cui, al momento dell’ingresso in istituto, già lavoravano e, potendo certificare una propria anzianità di servizio, possono beneficiare in graduatoria di lavoro per l’inserimento lavorativo all’interno del carcere.

Il detenuto ha diritto alle indennità nel caso di incidenti sul lavoro che contribuiscono a fare del lavoro penitenziario un’attività valorizzata in vista della reinserimento sociale.

Spesso il carcere è l’unico luogo di assistenza alla salute che garantisce trattamento medico per i soggetti che vi sono ristretti in cui si ha anche la possibilità di usufruire di visite medico-specialistiche e dell’assistenza sociale per la famiglia mediante contributi riconosciuti alle indennità incidenti sul lavoro che contribuiscono a dare alle mansioni interne accesso agli stessi diritti quali che siano le situazioni di colui che le svolge.

In carcere il reinserimento sociale favorisce la possibilità di fruire dei propri diritti e per il detenuto che lavora in modo regolare, e forse anche per la prima volta nella sua vita, già la sua volontà di accedere al lavoro interno costituisce un valido elemento di valutazione dell’intenzionalità a volersi spendere in maniera valida per la comunità in cui vive.

In tutta evidenza, si constata una generale mancanza di attività fisica in carcere.
Da un lato, le costruzioni penitenziarie sono dotate di terreni sportivi, molti dei quali di battitura in cemento o terriccio e ciò comporta che si debba rinunciare al gioco al pallone in caso di condizioni climatiche avverse oppure di cadute dolorose che provocano distorsioni anche gravi.

Molto praticata in carcere, invece, è la cura del corpo mediante esercizi di rinforzo della muscolatura(tipo body building) che assumono valore di modelli di disciplina e virilità all’interno della cella in cui vengono praticati.

In genere, il consiglio da parte degli operatori di astenersi da certi sforzi fisici viene accolto male dal detenuto che permea di narcisismo la cura del proprio corpo anche attraverso l’alimentazione, il rapporto con gli altri tanto da richiedere di poter introdurre prodotti dietetici ricchi di proteine consigliati da esperti nutrizionisti per sportivi a livello agonistico.

Tuttavia, la maggioranza della popolazione detenuta non pratica alcuna attività sportiva e la forza e la resistenza fisica in carcere è minimamente sollecitata tanto che sono frequenti le richieste dei reclusi di lavorare a titolo di volontariato senza retribuzione al fine di mantenere un livello minimo di mobilità.

Dott.ssa Deborak Moccia

Laboratorio di Ascolto seguirà con il contributo sul tema:
effetti del carcere sul corpo dei detenuti: a partire dalle sensazioni

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