Carcere, effetti che produce sulle persone che lo abitano

Scritto il 16/07/2014, 04:07.

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a cura della dr.ssa Deborak Moccia, funzionario giuridico – pedagogico presso la Casa Circondariale Rebibbia Nuovo Complesso di Roma

  •   Il carcere, “sofferenze senza nome” tra le sbarre

Il carcere è un’istituzione totale vincolata da sistemi di controllo del comportamento umano portatrice in sé di un “surplus” di sofferenza psico-fisica che si aggiunge all’esigenza legale voluta dalla società al fine di delimitare la libertà personale dei soggetti che si sono resi responsabili di azioni antigiuridiche. Al contempo, per rendere possibile un vero e proprio progetto riabilitativo della persona reclusa, la società fa appello al reperimento di disponibilità di risorse territoriali nei diversi ambiti sociali (scuola, lavoro, famiglia, tempo libero…) a garanzia del contenimento degli effetti prodotti a causa della riduzione alla partecipazione sociale ed economica.

  • In questa cornice, il carcere interessa tutte le persone che lo abitano, in quanto tanto i reclusi quanto gli operatori, istituzionali e non, imprimono a vario titolo un apporto di contenuto personale e professionale al contesto istituzionale che è indubbio favorito durante gli incontri di lavoro di rete e le occasioni di dialogo tra ogni partecipante al gruppo di osservazione e trattamento.

Quelle che si registrano quotidianamente tra le sbarre sono “sofferenze senza nome” non diagnosticabili, che si possono presentare anche a distanza di tempo e sono insite nel valore in sé del contenimento che la società richiede all’istituzione in cui si scontano tanto pene definitive quanto posizioni giuridiche in attesa di giudizio.

E’ noto che chi frequenta il carcere incontra svariati disagi principalmente legati alla ristrettezza dei luoghi e dei rapporti sociali, dalla limitazione della propria sfera di intimità personale, dalla perdita di libertà di movimento e di contatto con l’ambiente esterno, in particolare con gli affetti ed i familiari.

Si parla di “stress da segregazione” per ricondurre il malessere connesso alla detenzione che ha ripercussioni in termini di disagio sull’individuo avvertite fin dal suo primo ingresso e che non si arrestano con la scarcerazione.

Aspetti problematici della comunicazione in carcere sono dati dalle difficoltà linguistiche e differenze culturali. La scarsa comprensione della lingua italiana e la precarietà della condizione sociale di provenienza dei detenuti  extracomunitari  si registrafin dal momento del loro ingresso in carcere, in quanto , nella maggior parte dei casi, essi risultano sprovvisti di permesso di soggiorno, di risorse affettive e lavorative esterne, e talvolta sono state loro stessi vittime di percorsi di emarginazione sociale già prima della carcerazione e  presentano problemi di alcoolismo o di tossicodipendenza, oppure sono affetti da malattie che impediscono il benché minimo percorso trattamentale intramurario.

Difficoltà oggettive con le quali si misura il personale penitenziario che, in virtù dell’art. 13 o.p., è chiamato ad individuare i reali bisogni della personalità del detenuto e può trattarsi, come di frequente, che le problematiche  del recluso sono legate al contesto sociale e culturale di provenienza percui non è agevole inserire lo stesso in attività lavorative, scolastiche, ricreative interne oppure autorizzare contatti con il mondo esterno, rapporti con la famiglia.

Gli operatori della relazione d’aiuto che lavorano in carcere presentano nel tempo stati di disagio a livelli considerevoli.

Il rischio “burn out” e l’annoso problema di immedesimazione con le condizioni di vita dell’utente sono incognite mettono a dura prova il lavoro in carcere.

E’ indubbio che il carcere implica un lavoro duro, anche con  relazioni tra gli operatori soddisfacenti.

Descrivendo il lavoro in carcere si parla di operatori che sono ormai “cicatrizzati” o “vaccinati” oppure “guariti” per indicare due possibili modus vivendi: infatti,  una reazione possibile è la ”cicatrizzazione”, in quanto gli operatori imparano a convivere con un livello di disagio che, per il fatto di essere accettato, si abbassa il grado di sopportazione e si scavano una sorta di bozzolo, una nicchia ecologica di sopravvivenza; oppure l’alternativa è il c.d. “darsi da fare” di chi cerca soluzioni per risolvere il problema qualunque sia la reazione.

La prima soluzione ha effetti devastanti circa l’investimento emotivo nella capacità di continuare a lavorare sia per l’operatore che per il contesto relazionale. Di fatto, la soluzione può venire dalla combinazione di molteplici fattori, quali una mobilitazione personale in grado di produrre feed-back positivi rispetto al contesto. L’elaborazione più raffinata raffigura le variabili lavorative in carcere in livelli di temperatura che salgono maggiormente a livello di educatori anche per la caduta delle motivazioni iniziali.  La conclusione  ivi adottata è quella di cogliere i sintomi di disagio per sviluppare “anticorpi” sufficienti a guarire, come la condivisione di una strategia comune tra tutti gli operatori penitenziari.

 

  • La “sfida educativa” dell’educatore penitenziario

Di “sfida educativa” in carcere si può parlare a proposito dell’educatore penitenziario, in quanto l’ordinamento gli attribuisce un compito molto alto  che è quello di svolgere la propria professione di tipo giuridico-pedagogica in un contesto contenitivo normativizzato in cui egli deve saper conciliare gli interventi teorici – pratici che sperimenta nel percorso di competenza con l’attenzione alle esigenze della sicurezza interna affidata alla Polizia Penitenziaria e a quella esterna con la collaborazione da parte dell’Ufficio dell’Esecuzione Penale Esterna – U.E.P.E. e con maggiore significato con il rispetto della Magistratura di Sorveglianza. Come accompagnare adeguatamente le persone ristrette senza appropriarsi di atteggiamenti (saper essere) ed abilità (saper fare) comunicative e relazionali che facilitino il sostegno, la revisione del vissuto o di leggere l’esistenza. In tutte le sue tecniche e strumenti di relazione di aiuto, la figura professionale dell’educatore penitenziario diviene essenziale per favorire l’apprendimento e la verifica della crescita personale da parte del ristretto che avverte in sé lo stesso bisogno di essere ascoltato e compreso nella situazione che sta vivendo così carica di ansia.

L’esigenza di stabilire modi di comunicazione più significativi con l’operatore rende maggiormente efficac la correzione, il sostegno e l’incoraggiamento, ma in molteplici occasioni è insito il rischio della rottura.

E’ indubbio, infatti, che i detenuti ricevono ascolto dall’educatore, passano da una condizione di disordine, di passività, di devianza, ad un’altra fatta di ordine, di lavoro attivo sulla propria personalità. L’ascolto dell’educatore non è soltanto udire o sentire, è anche “mettersi nei panni dell’altro per comprendere il senso del suo essere-nel-mondo”(empatia) e valorizzare le sue risorse (empowerment) restituendo fiducia ai suoi passi. Accompagnare il detenuto nel percorso esistenziale in carcere richiede all’educatore altresì di assumere un atteggiamento responsabilizzante l’individuo promuovendo lo sviluppo del proprio pensiero costruttivo anziché inibente ed omologante. E’ l’educatore che coltiva con il detenuto la dimensione del dialogo, in quanto egli deve sapersi misurare con il pensiero divergente dell’altro in continuità con un impegno culturale ed etico che esprima solidarietà in ogni settore del vivere umano.

Il rapporto educativo si arricchisce di qualità in quanto la persona può confermare e disconfermare la relazione con l’operatore.

L’agire educativo improntato alle finalità della trasparenza, conguenza, autenticità, coincide con il proprio orizzonte valoriale in occasione di situazioni che impongono alla persona di riconoscere i propri errori. Naturalmente, l’educatore deve saper gestire i vissuti emozionali, soprattutto  evitando situazioni di controtrasfert. In questi ambiti, spesso di alta criticità, è preferibile per l’educatore che il “mettersi nei panni dell’altro” si declini meglio con il coinvolgimento professionale, attraverso metodologie differenti di progettualità educativa (entropatia).

Nell’osservazione del comportamento del detenuto oltre all’azione educativa in sé, ci sono anche le azioni disciplinari che interessano il ruolo dell’educatore, membro del Consiglio di disciplina competente a deliberare sanzioni interne che incidono sulla possibilità di concessione del beneficio della liberazione anticipata. In queste occasioni, risalta l’autorità del ruolo istituzionale riconosciuto in capo all’educatore che risulta limitata ai margini disciplinari in cui l’autonomia dell’altro risulta compromessa a scapito della percezione della relazione d’aiuto “tout court”.

Di fatto, la relazione pedagogica tra detenuto ed educatore si sviluppa su un piano asimetrico nelle occasioni in cui la comunicazione avviene su un piano di dislivello necessario per favorire nei ristretti abbassamento e controllo dei meccanismi di difesa che rendono difficile il processo di responsabilizzazione in carcere con conseguente apprendimento di elementi valoriali della personalità; acquisizione di consapevolezza che faciliti la comprensione di sé e della realtà esterna; miglioramento della capacità di espressione; consolidamento della capacità di autocontrollo che consente alle persone di filtrare con il pensiero l’istinto ad agire i vissuti; sperimentazione di soddisfazioni personali tramite il potenziamento di abilità personali ed interpersonali utili al reinserimento sociale.

In questi termini, educare in carcere è una sfida per l’educatore penitenziario che si pone sul piano della relazione pedagogica con i ristretti facendo leva sul processo di formazione continua della persona che porta in sé il germe della propria maturazione.

All’educatore penitenziario è richiesta la capacità professionale di leggere oltre le richieste palesate, anche quelle taciute, che rinviano alla condizione esistenziale della persona  a prescindere dalla sua posizione giuridica. La riflessione con il detenuto definitivo, in particolare, circa il suo passato deviante include la prospettiva del riconoscimento dell’errore, l’assunzione di responsabilità dei propri comportamenti e la motivazione per la costruzione di un progetto di vita. E nell’osservazione scientifica della personalità l’istituzione fa riferimento all’educatore per la progettualità, l’organizzazione e l’attività strutturata rispetto al vissuto individuale con tutti gli entusiasmi e le difficoltà che intende condividere.

 

  • Il carcere è un sistema aperto nella misura in cui il detenuto sceglie se stesso come “progetto che si fa persona”

*Il carcere è un sistema aperto nella misura in cui il detenuto esprime la decisione consapevole, almeno a se stessa, di responsabilizzarsi scegliendo se stesso come progetto che si fa persona.

Intendo dire che il carcere è anche un luogo mentale che attiva meccanismi di rappresentazione dell’ambiente che non sono consci e che quindi non possono essere descritti se non collegandoci con un processo interno legato alla memoria ovvero che contengono rappresentazioni astratte rispetto a ciò che intendono esprimere.

Rispetto al compito educativo va tenuto conto che l’intervento operativo rispetto ai bisogni dell’interessato non va soltanto individualizzato ma anche contestualizzato rispetto alle differenti realtà carcerarie dotate di strutture socio-educative tipizzate per ambiente, territorio, tipologia di detenuti, modalità trattamentali.

Va da sé che si registra un livello di ansia e di aggressività maggiore all’interno delle case circondariali dedicate all’accoglienza di persone in attesa di giudizio, mentre nelle sezioni penali e negli Istituti di reclusione si può scorgere un comportamento adattivo alla struttura che offre maggiori opportunità di reinserimento sociale.

In questo ambito l’attenzione per conoscere il carcere si pone anche a livello antropologico, in quanto molteplici sono stati gli interventi a livello di inclusione sociale, istruzione, alfabetizzazione a favore della popolazione detenuta straniera e tanto altro è auspicabile che venga realizzato, come l’introduzione della figura dell’antropologo culturale per avviare colloqui con i ristretti portatori di concetti e significati culturali differenti che richiedono formazione adeguata per venire adeguatamente interpretati.

A tutta evidenza, il lavoro dell’educatore è indissolubilmente legato ad un complesso di procedure amministrative tipiche della burocrazia dello Stato in cui per lavorare meglio e produrre di più si evidenzia lo scarto tra professionalità o specializzazione e condizioni di lavoro che favoriscono formazione e apprendimento continuo. Si richiama a breve cenno la questione della tempistica nella risposta alle istanze dei detenuti che rende tangibile la situazione di disagio tra chi, per favorire l’attività di collaborazione tra competenze necessarie, deve intensificare le necessità di relazioni e riunioni di gruppo e gli atteggiamenti di quanti traggono conclusioni da esperienze di incompetenza.

 

  • Abitare il carcere nel percorso educativo.

Le situazione di difficoltà e di emergenza che oggi si registrano nelle carceri italiane spesso non dipendono dalle persone ristrette e dal personale che vi presta servizio, dai volontari che curano l’assistenza dei reclusi. Anche nelle migliori intenzioni, il percorso educativo si fa meno agevole.

Se, infatti, mancano generi di prima necessità da distribuire ai più bisognosi, come ad esempio per l’igiene, il problema di gravità crescente ricade sugli operatori tutti che si spendono per quelle persone.

Non è a caso che quando i detenuti si dedicano a scrivere poesie, che partecipano ad attività sportive oppure al teatro, raccontano che nell’ambito di queste iniziative sono riusciti ad evadere con la mente, si sono sentiti liberi di esprimersi, hanno dimenticato di essere reclusi, hanno evaso con la mente trascinando altrove le proprie emozioni.

Avvicinarsi con cura all’incontro con il luogo carcere significa fermarsi a parlare con le persone che vi abitano. In  questo spazio è può ritrovare la dimensione dell’abitare , del “fare casa” nella misura in cui è possibile creare opportunità per sviluppare percorsi di riflessione personale e di condivisione di esperienze, ricordi e di ristrutturare il presente mettendo ordine in vista di un nuovo spazio futuro.

Il carcere è lo spazio che viene solitamente pensato come un grande ambiente dove incontrarsi e stare insieme tra detenuti per consumare anche un pasto non ha possibilità di realizzarsi. Questo spazio, invece, è in sintonia che la riscoperta dei valori che aiutano ciascuno a riscoprire l’autenticità in una comunità formata di persone che ogni giorno accettano il coraggio di accettare la sofferenza provocata dall’uomo per aver messo in gioco con la propria vita  le sue cicatrici.

L’operatore pedagogico si misura in carcere con un ambiente irreale, in quanto la vita sono le esperienze vissute nel quotidiano che restituiscono al mondo penitenziario la dimensione reale. Pensiamo ad una lettera di un familiare, il coraggio e la passione che si attiva intorno alla decisione di prendere carta e penna e che viene declinato in poche frazioni di secondi.

E non è vero che in carcere la vita non cambia, perché anche per uno soltanto di questi gesti, è ammesso tornare indietro, scegliere di interrompere rapporti con i familiari e vivere di solitudine, accettare il carcere portando dentro di sé le proprie tristezze oppure decidere di far finta di niente.

Il cambiamento di stile di vita si costruisce in tante occasioni quotidiane in cui il detenuto mette in gioco se stesso, apprende dai suoi errori il coraggio di ritrovare il proprio volto, la propria identità, di gettare le maschere.

Poi arriva  il tempo nuovo del ritorno alla vita fuori. Allora verso queste nuove mete della storia personale si ha bisogno di coraggio, soprattutto per non scendere a compromessi.

L’educatore, il quale redige l’ipotesi trattamentale, assiste il detenuto in questo suo atteggiamento forte e denso di significato che trova radicamento principalmente nell’attaccamento al recupero delle parti sane di sé e nel rispetto della legalità.

Il percorso educativo si misura altresì con problematiche che possono facilitare la slantentizzazione ovvero l’insorgere di disagi psichici e/o disturbi comportamentali che sono spesso correlati a pregresse patologie.

L’ espropriazione di riservatezza ed intimità, ’atmosfera di attesa continua che genera ansia sono aspetti che insorgono, in generale, in tute le carceri italiane e maggiormente sono avvertiti negli Istituti penitenziari in cui si scontano pene definitive di lunga durata rispetto alle Case Circondariali in cui sono ospitati, principalmente, detenuti con breve fine pena ovvero in custodia cautelare.

Situazioni di sofferenza che impongono uno scatto di coscienza.

 

  • Ingresso in carcere: il momento di vertigine.

Nell’ambito del tema svolto circa gli effetti che il carcere produce sul corpo di chi lo abita, meritano  attenzione le varie fasi che caratterizzano la detenzione.

Dall’ ingresso in carcere, durante l’intero arco della fase detentiva e fino alla scarcerazione, il soggetto recluso sperimenta situazioni che contraddistinguono la propria vicenda detentiva dagli effetti diversificati e con riflessi anche sulla percezione da parte degli operatori che possono sperare che qualcuno abbia ammesso l’errore e scelto di cambiare vita.

La fase iniziale della detenzione è estremamente delicata.

Il soggetto perdere il ruolo sociale che aveva prima, viene privato degli affetti personali, del proprio spazio decisionale autonomo, perde i contatti con i suoi amici e con gli affetti familiari, ed inizia a desiderare che le sue richieste vengano accolte perché tutto quello che accade intorno a lui non è più liberamente fruibile.

Si parla di “sindrome da ingresso in carcere” per descrivere una serie di disturbi spesso psicosomatici che comprendono, in generale, crisi d’ansia generalizzata, attacchi di panico e claustrofobia in questa fase iniziale di primo impatto con la struttura carceraria. Si tratta di un evento fortemente traumatico nell’esistenza della persona che può presentare gravi sintomi psichici finanche tentativi di suicidio che avvengono a prescindere dalla pena inflitta o presumibile.

Per questa ragione che è stato istituito il c.d. Presidio “Nuovi Giunti” con circolare n. 3233/ 5689 del 1987. In particolare, nel colloquio anamnestico svolto dall’esperto (psicologo o criminologo) si cerca di individuare i momenti o le fasi critiche della vita del soggetto, eventuali precedenti suicidari o probabili patologie psichiche al fine di poter delineare una capacità di adattamento del soggetto rispetto al realtà detentiva, Istituto ovvero reparto in cui lo stesso andrà inserito per l’esecuzione della misura detentiva.

Per il detenuto extracomunitario le difficoltà linguistiche accentuano il momento traumatico dell’ingresso in carcere perché egli presenta maggiori difficoltà di comprensione del percorso con cui viene a contatto. Le fasi di immatricolazione, la visita medica di primo ingresso da parte del sanitario, il colloquio con lo psicologo e quello svolto dall’educatore no sono agevoli in quanto spesso gli stranieri sono privi di documenti di riconoscimento, assumono un atteggiamento poco collaborativo con diffidenza, negazione e distacco, rispetto alla diagnosi di ipotetiche patologie.

L’ingresso in carcere a seguito di reato oppure la condizione antecedente al beneficio revocato impone un nuovo scenario di atteggiamenti, ambienti che richiede un adattamento immediato da parte della persona. Il detenuto, a prescindere dalla sua posizione giuridica, deve presentare la c.d. Domandina per parlare con un operatore, per accedere alle attività.

La realtà quotidiana è scandita dall’attesa costante di una possibile risposta ad una sua istanza che può disconfermare l’aspettativa nutrita nel tempo ovvero restituire senso di autoconsapevolezza al vivere quotidiano.

Il detenuto si confronta con il tempo misurando il carcere mediante il controllo che l’Istituzione impone al suo agire. Un controllo scandito principalmente secondo gli orari in cui sono organizzate in Istituto le attività ordinarie.

Fa riflettere pensare che prima la persona disponeva del denaro, della vita altrui, e che nello stato detentivo non ha la possibilità di decidere autonomamente del proprio presente. La reazione al tempo vuoto che il carcere impone provoca diverse risposte da parte dei ristretti che si adattano all’ambiente, condividono i propri spazi con i compagni e si dedicano a restituire dignità alla propria persona attraverso la partecipazione ad attività gratificanti offerte dall’amministrazione.

 

La “Domandina” è un modulo prestampato che serve al detenuto per chiedere alla Direzione colloqui con i vari operatori, istituzionali e volontari, per i più vari bisogni della persona, quali l’acquisto di prodotti non compresi nell’elenco della spesa, per ricevere un contributo per la pulizia, francobolli se si trova privo di soldi, per il cambio sezione o camera di pernottamento, per l’ammissione alle attività, per altre necessità. Per comunicare con il Direttore, il Comandante e per esigenze particolari, può scrivere una lettera in busta chiusa senza francobollo. Sono previsti altri moduli per chiedere benefici, per effettuare telefonate con familiari e conviventi. I moduli sono richiesti all’Agente in servizio nella sezione. Lo scrivano del reparto ritira i moduli imbucati nella cassetta della posta.

 

  • La fase detentiva, attraversiamo i luoghi strutturali

Attraversiamo i luoghi strutturali del carcere ci accorgiamo che la segregazione fisica si ripercuote non soltanto sul corpo di chi lo abita, ma produce effetti anche lungo il territorio di vita quotidiana in carcere che è fatto di occasioni, scelte, sentimenti. Gli effetti della detenzione possono verificarsi  anche a distanza di tempo.

 

Il tempo in carcere diventa tempo della vita scandito dal ritmo del sistema.

Il carcere è un territorio attraversato, abitato nei rapporti con il mondo fatto delle sue regole e che è anche mondo separato e, di conseguenza, genera senso di solitudine, di angoscia e tensione verso il progetto vissuto dentro e fuori.

Il carcere produce quei mali che, pur restando nell’ombra, colpiscono il ristretto e che si spiegano come “sofferenze senza nome”. Si tratta di un tipo di sofferenza “legale” che trova la sua giustificazione nella scelta della società di delimitare la libertà della persona resasi responsabile di reato per il tempo congruo al suo reinserimento sociale. Eppure con il carcere la persona subisce una sorta di destrutturazione e debilitazione che non scompare con la scarcerazione, anzi gli effetti del carcere non si arrestano con lo sconto della pena.

Ci riferiamo a quelle modificazioni sensoriali che sono conseguenza dello stato detentivo, quali la permanenza prolungata nella ristrettezza della cella che altera la vista da lunga “a corta”; l’’olfatto che si copre dell’odore “pesante” legati ad  ambienti, materiali penetranti; l’udito che si acutizza al rumore dei battenti, delle celle, dei richiami, delle chiavi. E come meccanismi di difesa, si sviluppa una sorta di sordità auto-indotta e si perde la capacità tattile per la privazione del contatto con oggetti, quali metallo, vetro, lacci di scarpe oppure la perdita di odorato con lo sviluppo della c.d. anosmia.

Quanto all’indebolimento dello sguardo, i detenuto chiedono lenti necessarie per leggere, studiare, vivere la socialità, scrivere una lettera che è anche il mezzo di comunicazione in carcere più utilizzato perché riesce a mantenere vivi alla memoria, parola dopo parola, rapporti con la realtà esterna. Riprende anche attività che non praticava da tempo, come il disegno o la pittura e decora le sue lettere con immagini che rilevano espressioni di sé.

Rispetto all’utilizzo del televisore in cella, va considerato che la condivisione obbligata dello strumento costringe i detenuti ad una sorta di autodisciplina circa la scelta dei canali di trasmissione ed il volume recepito che può sconfinare in episodi disciplinari di rilievo. Circa le condizioni abitative in cella correlate all’utilizzo del televisore, spesso unica risorsa di intrattenimento domestica, i detenuti lamentano di trovarsi troppo vicini agli occhi lo schermo e qualcuno lamenta che in carcere gli stimoli sono andati impoverendosi. Suono ed immagini recepite dalla televisione conferiscono una parvenza di presenze animate al grigiore di chi giace in cella.

Per altri detenuti, invece, la televisione è privilegiata rispetto ad altre opportunità ricreative, in quanto restano ore ed ore immobilizzati allo schermo avvinti dall’immagine ininterrotta di colori e forme e sfilano immagini curate e notizie aggiornatissime di cronaca e gossip.

Per gli operatori di sezioni è pacifico che la televisione in cella è un ausilio efficace di distensione per il contenimento della quotidianità detentiva a supporto dell’isolamento provocato dalla carenza di interazione con l’esterno causa di alterazioni al linguaggio, al movimento, alla sessualità.

A riguardo va anche considerato che, progressivamente, il detenuto sviluppa un adattamento alla comunità carceraria andando uniformarsi in  atteggiamenti,  comportamenti, abitudini comuni.

In questo sistema di ordine e controllo del comportamento dei ristretti, le esigenze personali di desideri e bisogni del singolo corrono il rischio di essere assimilati nella cultura del penitenziario andando incontro  alla c.d. prisonizzazione, disturbo psichico in ambiente carcerario con la perdita della propria unicità.

Va da sé che la mancanza di comunicazione con l’esterno provoca malessere e disagio.

L’isolamento provocato dall’incontro di rado con gli operatori è quanto di più temuto dai ristretti, perché dall’incontro con l’altro si può ossigenare la ristrettezza abituale con una segnalazione di una propria necessità. La comunicazione, pertanto, risulta indispensabile per ritrovare “sostanza umana” nell’incontro con l’altro. E chi entra in carcere per la prima volta si sente sperduto, gli sfuggono i parametri di riferimento, percui va a ritrovare in carcere gli elementi della propria identità riconoscibile nel tempo e nello spazio della detenzione.

La geografia del luogo carcere è scandita da percorsi obbligati che si ripetono costantemente e producono effetti invisibili in chi lo abita.

Tanti di questi fattori sono intraducibili, perché basati sulla risonanza fonetica di parole, odori, sguardi.

La struttura carcere si compone di porte dall’aspetto severo che si aprono ad altre porte e cancelli che fronteggiano ostacoli senza sosta. Ogni porta si apre alla presenza di chi si porge a vetrate, spioncini, telecamere, sportelli laterali, e vi è sempre uno sguardo che scivola tra i battenti.

Rumori reiterati del tintinnio delle chiavi che urtano tra loro, lo schiocco metallico del battente contro lo stipite  sono funzioni rituali che porte e cancelli non possono evitare nello spazio del carcere.

Il carcere è anche un mondo di  silenzio e rumori contrastanti.

La giornata del detenuto ha perso la dimensione autonoma del suo tempo, della sua intimità, ed è scandita dall’apertura di porte e cancelli che aprono il passaggio a corridoi senza fine. Dietro le sbarre i detenuti passano le braccia, comunicano tra loro nello spazio amplificato dello spazio che li separa e la luce naturale perde la sua libertà di risplendere perché predomina un chiaroscuro senza vivacità.  Il grigiore comune.

L’odore del carcere è inconfondibile, proviene da svariati ambienti, interni ed esterni, e si impregna dappertutto. L’odore del carcere è anche un forte marcatore per chi lo abita:

il detenuto ti viene a dire che si riconosce “galeotto” da quando l’odore proprio e quello del suo compagno di cella si è fatto unico e si è adattato a quello della galera. Anche l’operatore penitenziario ti viene a parlare che si porta addosso il carcere quando vive una sorta di amore-odio con tutto quello che il penitenziario rappresenta e che non riesce a scrollarsi di dosso, la c.d. carcerite.

Il territorio in cui si racconta l’uomo-detenuto è certamente la cella, accessibile a chi accetta di conoscere il quotidiano vissuto in carcere.

Le celle sono spazi che si aprono a grandi corridoi. Le celle offrono alle persone, letti, due o tre sgabelli, un piccolo tavolino, un lavabo, un vaso sanitario e tutti gli altri generi di arredo e vestiario consentiti, tipo qualche volta un piccolo fornellino per riscaldare e qualche paio di calzature. Materassi ignifughi, piccoli armadietti spesso privi di ante ed un televisore collocato con una staffa concessi dall’amministrazione. Dentro questo spazio di pernottamento i codetenuti organizzano tra loro uno stendibiancheria con un breve cordino da cui pendono i capi di biancheria personali.

La cella è anche abitata da rumori assordanti ed invadenti, tra cui quello del televisore, il cigolio di letti arrugginiti, colpi battuti alle sbarre per chiamare gli operatori e le voci continue lungo i corridoi.

Non sempre in cella si trova il muretto divisorio per i servizi igenici del wc, allora viene attaccata alla parete una coperta che crea un ambiente separato dalla zona letto. L’atmosfera si fa ancora più pesante sia per l’inquinamento acustico che vive il detenuto, sia per il vapore emanato dagli abiti stesi ad asciugare soprattutto per detenuti che non dispongono di altri cambi di vestiti e sono costretti ad indossare abiti ancora umidi.

A volte, per alcuni carceri, sono stipulati accordi con biblioteche comunali che prestano al carcere più volte al mese dei libri nuovi ed attraverso queste opere di qualità alcuni detenuti “divorano” il tempo leggendo con regolarità i classici della letteratura e tanto altro. Al termine della pena i testi ricevuti all’esterno devono essere restituiti. A volte capita che il detenuto “si mette in tasca” il libro per continuare la riflessione anche all’uscita dal carcere.

In carcere la lettura è fermento di grande umanità che ha il potere di sciogliere nodi che stringono dentro perché già nella donazione del libro da parte dell’operatore il detenuto scopre la possibilità di comunicare per altre cose interessanti, di apprendere e raccontarsi attraverso momenti di riflessione, diari personali redatti durante le ore più intime della reclusione.

Nel lavoro autobiografico il detenuto acquista consapevolezza della propria solitudine, il condannato impara il rimorso del suo crimine e a distaccarsene, e si interpretano tradimenti, assassini, denunce stando nella cella che si rivela tempo e spazio di evasione con la lettura e le attività personali rispetto alla propria solitudine detentiva.

La lettura si rivela un importante beneficio anche per il detenuto in isolamento. Tale è la condizione maggiormente temuta in carcere, perché costituisce una punizione che porta il condannato ad una profonda solitudine in quanto, non potendo disporre durante il giorno che di una cella vuota con un unico letto e sgabello, la lettura di giornali, riviste, libri suscita interesse e motivazione al reinserimento nella comunità.

Va da sé che anche la lettura provoca effetti sul corpo del recluso, in quanto i medesimi caratteri tipografici delle pubblicazioni affaticano, nel tempo, la vista dei detenuti che vivono in un campo visivo ridotto per gli spazi consentiti dalla segregazione e numerose sono le richieste di visite oculistiche.

Mantenere l’udito in una condizione di allarme costante provoca disturbi dovuti alla cacofania delle serrature, della sbarre, delle risonanze metalliche e delle grida. Alcuni detenuti riferiscono che “per navigare nell’oceano carcerario, ciascuno è dotato della propria antenna – tipo sonar – che capta segnali e orienta la sensibilità dell’udito normale”.

Anche il tatto viene fatto prigioniero. Quei materiali che possono creare problemi alla sicurezzadei reclusi sono banditi all’interno della cella e nel tempo si perde la dimensione del contatto come, ad esempio, il detenuto che vorrebbe toccare il collo di una bottiglia di vetro, non di plastica.

La superficie cutanea esterna si indurisce e si abbandona la speranza dell’incontro con la pelle del corpo. Un detenuto racconta che soltanto con l’acqua della doccia riusciva a sentirsi rassicurato e riorganizzare le immagini intime come se tutto gli scivolasse addosso nella ripetizione dei gesti quotidiani.

Il lavoro in carcere è l’attività più ambita per i detenuti, ma la maggior parte delle carceri non ha locali abbastanza spaziosi per attrezzare officine e le apparecchiature sono ridotte a motivo di spazio e sicurezza. Esperienze a più elevato contenuto industriale sono state realizzate nel corso degli anni con investimenti da parte dell’amministrazione penitenziaria, ma che non hanno mai impiegato l’intera popolazione detenuta e che non riguardano più del 10% dei ristretti.

Si tratta di attività a carico dell’amministrazione penitenziaria che non richiedono specializzazioni, come la pulizia dei locali di uso comune, delle docce, della manutenzione degli impianti di riscaldamento, il trasporto dei pasti dalla cucine alle celle.

Per altri lavori, invece, sono apprezzate le professionalità dei detenuti, come per gli elettricisti, i muratori, i pittori richiesti per la manutenzione dei locali ed il rifacimento della struttura muraria del carcere. Molto ambita è anche la posizione del bibliotecario che regolarmente cura l’archivio della biblioteca del reparto e la consegna ed il ritiro dei testi presso le celle e si coordina con i volontari e l’educatore incaricato del servizio. La maggior parte dei detenuti sono iscritti alla cassa di previdenza e malattia per cui, al momento dell’ingresso in istituto, già lavoravano e, potendo certificare una propria anzianità di servizio, possono beneficiare in graduatoria di lavoro per l’inserimento lavorativo all’interno del carcere. Il detenuto ha diritto alle indennità nel caso di incidenti sul lavoro che contribuiscono a fare del lavoro penitenziario un’attività valorizzata in vista della reinserimento sociale.

Spesso il carcere è l’unico luogo di assistenza alla salute che garantisce trattamento medico per i soggetti che vi sono ristretti in cui si ha anche la possibilità di usufruire di visitemedico-specialistiche e dell’assistenza sociale per la famiglia mediante contributi riconosciuti alle indennità incidenti sul lavoro che contribuiscono a dare alle mansioni interne accesso agli stessi diritti quali che siano le situazioni di colui che le svolge.

In carcere il reinserimento sociale favorisce la possibilità di fruire dei propri diritti e per il detenuto che lavora in modo regolare, e forse anche per la prima volta nella sua vita, già la sua volontà di accedere al lavoro interno costituisce un valido elemento di valutazione dell’intenzionalità a volersi spendere in maniera valida per la comunità in cui vive.

In tutta evidenza, si constata una carenza di attività continuative organizzate per garantire a tutti i detenuti l’esercizio di attività fisica in carcere.

Da un lato, le costruzioni penitenziarie sono dotate di terreni sportivi, molti dei quali di battitura in cemento o terriccio e ciò comporta che si debba rinunciare al gioco al pallone in caso di condizioni climatiche avverse oppure di cadute dolorose che provocano distorsioni anche gravi.

Molto praticata in carcere, invece, è la cura del corpo mediante esercizi di rinforzo della muscolatura (tipo body building) che assumono valore di modelli di disciplina e virilità all’interno della cella in cui vengono praticati.

In genere, il consiglio da parte degli operatori di astenersi da certi sforzi fisici viene accolto male dal detenuto che permea di narcisismo la cura del proprio corpo anche attraverso l’alimentazione, il rapporto con gli altri tanto da richiedere di poter introdurre prodotti dietetici ricchi di proteine consigliati da esperti nutrizionisti per sportivi a livello agonistico.

Tuttavia, la maggioranza della popolazione detenuta non pratica alcuna attività sportiva e la forza e la resistenza fisica in carcere è minimamente sollecitata tanto che sono frequenti le richieste dei reclusi di lavorare a titolo di volontariato senza retribuzione al fine di mantenere un livello minimo di mobilità.

Una breve nota merita la questione dei detenuti stranieri.

Per la gran parte dei detenuti extracomunitari il carcere è vissuto in stato di emarginazione, disprezzo per la condizione di esclusione sociale provocata dal vuoto affettivo di non avere una rete familiare a supporto. In queste condizioni critiche abitare il carcere significa vivere una situazione alienante di frustrazione, perché i ritmi della quotidianità sono scanditi dalla mancanza di contatti epistolari, telefonici, colloqui, dall’attesa di una misura alternativa vanificata dalla mancanza di disponibilità esterne.

Difficoltà linguistiche che investono i detenuti stranieri permangono durante il corso dell’osservazione in cui prevale la condizione di emarginazione che possono sconfinare, nella peggiore delle ipotesi, in condizioni di aggressività estrinsecata in atti di autolesionismo con elevati numeri di procedimenti disciplinari

Il carcere allora porta in sé un sapore aspro nei momenti della vita detentiva in cui la permanenza nella struttura si misura con le  condizioni di sovraffollamento.

Nella vita detentiva gli operatori penitenziari sono chiamati allo svolgimento dell’osservazione scientifica della personalità, a lavorare in équipe e la compresenza di funzioni comporta che il contenimento delle persone in carcere trovi una struttura edilizia degli istituti che accolgano il detenuto tanto per il pernottamento quanto per lo svolgimento delle attività durante il corso della giornata. Nei reali margini di poter realizzare condizioni più favorevoli a programmi di rieducazione e di trattamento socializzanti nei confronti dei detenuti, si muove altresì anche il benessere degli operatori chiamati a gestire la vita dei detenuti in funzione del proprio mandato istituzionale di custodia e rieducazione.

 

  • La fase prossima alla scarcerazione. Quali offerte al reinserimento sociale?

L’intervento educativo quotidiano si realizza all’interno del carcere nell’ambito dei possibili campi di applicazione di una rete intessuta di interventi, servizi e storie dei soggetti interessati.

E’ facile prendere contatto con questa realtà per scorgere che essa è caratterizzata da atmosfere tipiche della vita detentiva con i suoi ritmi, odori, rituali, ma non è semplice abitare, avere consuetudine con  uno spazio separato dal mondo esterno.

E’ indubbio che il carcere, in quanto società totalizzante in cui gli individui sono sottoposti a controllo costante da parte dell’Autorità, non riesce ad offrire a tutti i reclusi gli strumenti concreti per il reinserimento sociale.

In questo ambito, il carcere non riesce a garantire sicurezza sociale, perché le attività utili al consorzio esterno, in primis il lavoro qualificante, sono razionalmente distribuite al suo interno. Si aggiunge anche la situazione dei giovani adulti, tossicodipendenti che, privi di un sostegno familiare adeguato, trovano in carcere le condizioni amicali che favoriscono la recidiva innescando un circolo vizioso di detenzioni che, certamente, si acuiscono per gli stranieri irregolari sul territorio nazionale e le persone senza fissa dimora.

Il legame tra le condizioni dell’ambiente e la percezione di chi abita il carcere provoca stress e con il perdurare in questo ambito si provocano modificazioni anche comportamentali che continuano anche dopo la reclusione e non soltanto per i ristretti.

Anche l’ideazione, la creatività è influenzata dal carcere che genera ansia, rabbia, paure, senso di vuoto. L’atteggiamento conseguente comporta diversi disturbi che possiamo considerare a partire dalla perdita di controllo sulla gestione della propria vita, percepibile anche per il fatto di restare ristretti dentro la struttura per l’esecuzione di una misura cautelare oppure per scontare pena di breve durata.

Accomuna tutti i reclusi la regressione specifica che improvvisamente vive il detenuto che non ha più occasioni per decidere da sé. E può arrivare al gesto estremo dell’ideazione suicidaria il tentativo di fuggire alla segregazione del carcere che è una costante durante l’intera vicenda detentiva.

Così l’esperienza dei permessi che aiutano la persona a coltivare gli affetti familiari esterni, a recuperare il proprio ruolo genitoriale con la possibilità di ritornare a vivere emozioni e sentimenti che dentro al carcere erano rimasti sospesi. I rapporti affettivi restano congelati anche per i congiunti che vivono una dimensione punitiva correlata alla detenzione nell’attesa di un colloquio, una telefonata, una lettera, un beneficio.

Anche la semilibertà facilita il recupero sociale con la disponibilità di un lavoro e rispetto alla realtà esterna il detenuto, che per anni e mesi, si è trovato costretto sotto il vigile controllo del suo comportamento da parte dell’Autorità trova a sperimentare gradualmente la ritrovata libertà nell’esperienza quotidiana. Il ritorno alla vita reale vissuta all’esterno dal carcere richiede un buon livello di autocontrollo perché un’infrazione delle prescrizioni impartite dall’ Autorità fanno decadere dal beneficio e la persona deve aspettare il termine di 3 anni ai sensi di cui all’art. 58 quater o.p. per potervi nuovamente accedere. Ritornare al regime carcerario dopo questo assaggio di libertà è frustrante e genera disagio anche tra i compagni e i familiari all’esterno che devono riadattarsi alle necessità penitenziarie.

Relazioni umane guidate nel rispetto dei bisogni della persona ristretta che si confrontano, pertanto, con le esperienze controllate fuori dalle sue mura.

Dott.ssa Deborak Moccia

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